BEATRICE SPERANZA
*Foto in evidenza: Dal progetto Le presenze e montagna, Legare la terra al cielo. Copyright Beatrice Speranza
Beatrice Speranza (Lucca, 1970) è laureata in Architettura ma la sua passione per l’immagine e la composizione la portano presto ad intraprendere un percorso professionale ed artistico in ambito fotografico spaziando dal ritratto al paesaggio al reportage. La sperimentazione e la ricerca, anche attraverso collaborazioni in ambiti differenti, la conducono a realizzare progetti ibridi, tra i quali, negli ultimi anni, le serie di opere in cui coniuga fotografia, ricamo ed altre discipline, non ultima la letteratura. Ha esposto in sedi nazionali ed internazionali. Ed ecco cosa ci ha raccontato di lei…
Qualche anno fa, Vinton Cerf, vicepresidente di Google, raccomandava di stampare le foto a cui davvero teniamo per metterle al sicuro da un’eventuale impossibilità di visualizzarne il formato digitale ormai obsoleto in futuro. Le tue fotografie sono non solo stampate ma rese anche irripetibili dall’intervento di ricamo. Questo doppio passaggio recupera due elementi che appaiono tanto anacronistici da risultare estremamente contemporanei: il tatto – ovvero la possibilità di instaurare a partire già dal rapporto dell’artista con la sua opera un contatto fisico – e il tempo – il tempo della scelta dello scatto, della stampa e non ultimo quello lento del ricamo. La tua ricerca e la tua pratica artistica si sottraggono a virtualizzazione, digitalizzazione e velocità. Qual è stato il percorso che ti ha condotta fino a qui?
Hai individuato proprio le due caratteristiche che mi hanno spinto ad intervenire fisicamente sulle mie foto: il tatto e il tempo.
Ho sempre avuto la passione della fotografia e la mia occasione per approfondirla è stato il primo anno di università e gli studi successivi che ho scelto come materia di esame ad Architettura. Sono stata una ragazza introversa e timida e con la fotografia ho iniziato non solo ad indagare me stessa ma anche ad aprirmi agli altri, a superare paure e limiti.
Per me fondamentale è stato il contatto fisico con le mie foto, le nottate nella mia piccola camera oscura. Era un tempo lento e di grande presenza… se mi sentivo distratta o con la testa altrove rimandavo le mie sedute di stampa.
Ho sempre avuto facilità a viaggiare con la mente, a inseguire visioni e idee che cercavo poi di realizzare, ma c’è stato un momento che questa difficoltà di concentrazione era diventata quasi imbarazzante… bastava una parola che mi collegasse ad altro per perdermi nei miei pensieri e progetti mentali… e così mi perdevo il momento presente. Nel 2012 fui invitata a realizzare una mostra insieme alla floral designer Emy Petrini: guardavo i suoi intrecci e la calma e serenità che aveva mentre li realizzava e fu proprio dopo una piccola discussione, che nacque dopo il mio ennesimo volo di fantasia durante una nostra conversazione, che mi dissi che sarebbe stato importante lavorare nuovamente con le mani, per ritrovare quella concentrazione che avevo in camera oscura. Ricordo benissimo il momento: ero seduta sul mio divano in salotto e ebbi la visione dei ricami. Visualizzavo quei gesti lenti che ho visto fare tante volte a mia nonna e le immagini dei quadri classici cone le dame che ricamavano alla luce di una finestra. Un atto meditativo. Così nacquero le mie Presenze: una ricerca di attenzione, in un atto così delicato e forte allo stesso tempo, nel forare la carta con un ago con il rischio di strapparla e soprattutto un gesto che non permette di tornare indietro. Era il 2013, io e Emy presentammo “Trame segrete” alla Galleria 33 di Tiziana Tommei. Un progetto nato come esercizio di presenza più che di ricerca estetica, ma che fu subito notato dalla allora direttrice della casa d’aste Christie’s, Clarice Pecori Giraldi, che mi diede inconsapevolmente coraggio per perseguire questo cammino.
Nei tuoi lavori paesaggi naturali e architetture sono declinati attraverso altre discipline – dalla letteratura alla meditazione, in una sintesi in cui ogni elemento trova il suo equilibrio. Qual è la genesi delle tue opere? Come nascono e attraverso quali passaggi prendono forma?
Nel 2010 feci il mio primo corso di tecniche di respiro e meditazione, un percorso molto dolce e allo stesso tempo un cammino arduo verso la consapevolezza di sé, dove per la prima volta ho sentito parlare di presenza.
Le mie opere inizialmente erano degli assoli, gli ultimi lavori sono delle vere e proprie narrazioni. Il ricamo non ricalca qualcosa di già presente nell’immagine, ma rivela presenze nascoste che cambiano l’equilibrio della foto per trovarne uno nuovo. Uso da sempre le mie Presenze come un blocco di appunti: i percorsi che faccio, le mie letture vengono fermate come quasi dei postit attraverso i ricami e i titoli che abbino ai miei lavori. Nel 2015 per la mostra Il tempo sospeso realizzai i primi racconti visivi utilizzando cera d’api (La pienezza del vuoto) e paraffina (La nostalgia del cielo) entrambi dedicati a mia madre, ma è stato nel 2016 dopo aver letto l’ultimo libro di Pia Pera, Al giardino ancora non l’ho detto, che decisi di realizzare la prima composizione di foto ricamate proprio del giardino di Pia che chiamai, in accordo con lei, Libere Presenze.
Negli anni mi è stato chiesto di interpretare nel mio modo onirico sia realtà aziendali come la Faema, famosa per le sue macchine del caffè, e Itema, leader di telai per l’alta moda, che luoghi come il Massiccio del Monte Bianco, le Dolomiti e anche una città, Bologna. Cerco sempre di farmi un’idea prima della storia del luogo e del possibile progetto, ma poi la realtà, gli imprevisti e le stesse emozioni del momento conducono il mio sguardo e anche successivamente nella selezione delle foto arriva anche l’immagine da ricamare.
L’intervento di ricamo consente di conferire all’opera una tridimensionalità ibrida, poiché non asseconda l’immagine ma piuttosto ne altera la percezione e ne moltiplica le ombre. Questo ‘elemento estraneo’ assume un significato ulteriore all’interno dell’opera – concettuale, filosofico, funzionale?
I miei interventi sono sempre lievi, anche la piccola dimensione dell’opera porta l’osservatore ad un rapporto avvicinato ed è lì che il ricamo si rivela ed è ad esso che affido il compito di cambiare punto di vista e di dare un nuovo significato all’immagine.
Con la fotografia mi metto in gioco, per scoprirmi, per prendere appunti e soffermarmi su ciò che ritengo un valore. Il filo unisce due punti, crea trame e sono tanti i significati che può assumere… è sempre emozionante per me scoprire come risuonano nell’osservatore. Credo tanto nell’importanza dell’unire la terra al cielo, nella ricerca di elevazione e nell’importanza di essere ben radicati a terra…sono esperienze che ho vissuto personalmente e che riporto nelle mie Presenze. Così come le ombre che si creano attraverso i ricami, l’ombra nasce dalla luce e allo stesso tempo la valorizza. Le ombre cambiano sempre nell’arco di una giornata e a seconda della fonte di luce che arriva sulle mie foto, le rendono tridimensionali e in un certo senso vive in quel vibrare del filo di mohair che solitamente uso. L’ultimo lavoro l’ho chiamato proprio Luce e ho dato per la prima volta un ruolo importante alla foglia oro: un trittico che presenta tre globi dorati rivolti verso le Americhe, l’Europa e l’Asia immersi nello stesso mare e sotto lo stesso cielo. Al filo il compito di scrivere questa volta la parola LUX.
Cos’è il silenzio, questa presenza che permea tutte le tue opere?
Il silenzio per me arriva quando placo la mente, ascolto e faccio parlare il cuore. Quando vengo colta dal quell’attimo di meraviglia che mi fa trattenere il fiato e rimango nello stupore: è una frazione di secondo dove tutto tace per poi far prendere posto a un gran senso di gratitudine. Arriva come un’esplosione di gioia che mi lega immediatamente a tutti e a tutto… una volta prendevo il telefono in mano e sentivo subito il desiderio di condividerlo con mia madre, poi con gli affetti più cari… ora sto imparando a custodirlo e questo forse mi ha permesso di esprimerlo attraverso le mie opere.
Scegli fili di lana colorati per intervenire su fotografie in bianco e nero. Perché questa scelta?
Ma non è sempre così. I colori che più uso sono il bianco, l’azzurro pallido e il rosa antico. Sono molto lievi, intimi ma a volte sento bisogno di più energia, di forza, di enfatizzare il ricamo, ma sempre in equilibrio con l’immagine. Le mie opere sono tutti pezzi unici, anche se volessi sarebbe difficile ripeterne una uguale, ma anche il colore quando lo uso è perché sento che quella foto ha bisogno di quella gradazione, almeno in quel momento… poi tutto cambia e potrebbe essere che a distanza di tempo nuove tonalità potrebbero dialogare con la stessa immagine.
Le mie prime foto ricamate erano anche a colori, e devo dire che erano molto belle, poi sempre per questo bisogno di intimità è arrivato il bianco e nero, ma le evoluzioni e i cambiamenti sono sempre in atto.
Tra i lavori recenti c’è la serie di opere ispirate alla Divina Commedia di Dante. Mi racconti questo progetto?
Lo scorso anno sono stata invitata a realizzare tre opere per la mostra itinerante CANTICHE, una collettiva per la quale è stato chiesto a Nino Migliori, Giovanni Gosdan, Marco Baldassari e Gianni Schicchi di invitare altri quattro fotografi ciascuno.
È stata l’occasione per riavvicinarmi a Dante e per riflettere sul cammin di nostra vita. Il mio desiderio da subito è stato di non riprendere lo studio della commedia in chiave storica e letterale, ma di andare a scoprire il messaggio nascosto, come lo stesso Dante dichiara nel canto IX dell’inferno: “O voi ch’avete l’intelletti sani, mirate la dottrina che s’asconde sotto il velame de li versi strani.”
Ed è così che mi sono imbattuta negli studi di Giorgia Sitta, psicologa clinica, studiosa di alchimia e di psicologia esoterica. Ho avuto giornate di grande eccitazione, ma anche tanti turbamenti e inciampi.
Il viaggio mi ha stimolato ad andare avanti con la realizzazione di tre Presenze per cantica che ho presentato per la prima volta al Mia dello scorso anno con la Galleria Still.
Per questo progetto è stato importante studiarmi anche le immagini di Gustave Doré, per ricercare nella memoria delle mie foto i luoghi che si prestassero ad accogliere i miei ricami, per rappresentare le scene narrate da Dante nelle varie Cantiche.
Da subito ho deciso di giocare con il 3 per le immagini di ogni cantica e di terminarle con il cielo. Essendo la Divina Commedia non solo il viaggio iniziatico di Dante ma anche il viaggio di ogni essere umano che si mette alla ricerca di Sé…all’improvviso ho avuto la visione di me all’interno della selva oscura. Mentre la mente cercava di contrastare questa visione, perché mai mi sono ritratta in una mia foto, mi sono chiesta: ma se Beatrice è nella selva oscura chi incontra quando arriva in Paradiso?. Anche qui l’immagine è arrivata chiara: una foto di me a nove anni che accompagna Beatrice di età più matura (anche se la foto mi ritrae a soli 21 anni). Così ho trovato il coraggio e ho realizzato il primo trittico.