CATHY HIRCHENHAHN
*Foto in evidenza: SANS TITRE 2021: Techniques mixtes, textiles, matières animales, épingles, cire (24 cm x 48 cm)
Cathy Hirchenhahn gioca con elementi preesistenti, vecchi oggetti di recupero, frammenti di natura trovati nel loro ambiente, souvenir di storie e memorie usciti da armadi e cassetti assemblandoli per creare piccole opere che coniugano gli opposti in un misterioso equilibrio di armonia. Piccoli universi in miniatura che sono esposti in diverse sedi nazionali (a Strasburgo, al Castello di Thanvillé, a Quimper, Pont -Aven, alla Cappella Bonne Nouvelle di Melgen, tra gli altri). A breve, creerà un’opera partecipativa con i visitatori nella piccola galleria del Louvre come parte della mostra “Objets venus d’ailleurs”
Naturale o artificiale: quali sono i materiali che utilizzi per le tue opere e come li scegli? Come hai iniziato a sperimentare il loro impiego per realizzare lavori artistici?
Quando ero studente all’Arts Décoratifs di Strasburgo, mi sono diplomata in pittura presentando assemblaggi minimalisti in legno. Successivamente, il mio lavoro si è evoluto in base all’incontro con altri materiali. Oggi la caratteristica del mio lavoro è il mischiare queste materie prime animali, vegetali, minerali, ma anche oggetti artigianali o industriali.
Il mio approccio consiste nel mettere insieme elementi eterogenei trovati, raccolti: sono costantemente alla ricerca di nuove texture, nuove forme. Questo è l’inizio, il filo conduttore, la scoperta di un infinito possibile e delle sue molteplici combinazioni.
Affronto elementi contrari e a priori incompatibili, li trasformo, li assemblo, li decostruisco fino a trovare un’unione, un dialogo, una fusione tra il prezioso e il banale, tra materiali artificiali e materiali viventi, morbidi e duri; oggetti d’altrove con oggetti di uso quotidiano.
I materiali poveri sono elevati allo stesso livello di quelli considerati nobili, alcuni provengono da un mondo passato e si intersecano con quelli della nostra era contemporanea. Non ci sono regole, tutto si mescola senza che ci sia alcuna gerarchia. Le funzioni primarie degli oggetti scompaiono a favore delle loro forme, dei loro colori e delle loro trame. Ciò che conta per me prima di tutto è l’emozione provocata dalla scoperta di un oggetto. L’interesse per la sua storia o la sua funzione viene dopo e fa parte del piacere delle mie scoperte e del loro potenziale latente.

A prima vista, le tue opere sembrano misteriosi oggetti rituali primitivi, capaci di veicolare forze primordiali e di dialogare con entità divine lontane nel tempo e nello spazio. E invece?
Precisamente, non lo so: tutto ciò è misterioso anche per me. Lavoro in modo molto istintivo, intuitivo. Faccio le cose per una sorta di necessità interiore. Mi dà uno stato di esaltazione dove non ci sono limiti.
Certo, ho un interesse particolare per molti oggetti primitivi: copricapi, strumenti, maschere; ma il mio obiettivo non è assolutamente relazionarmi con culture, simboli, funzioni degli oggetti che non mi appartengono. Per me i miei assemblaggi sono opere astratte, cerco persino di eliminare ogni connotazione e riferimento con le forme realistiche esistenti. Ma un’opera astratta non esclude una sorta di immagine interiore o simbolica: la verticalità e la simmetria mi hanno sempre accompagnato – quest’ultima è presente nelle piante, negli animali e nell’uomo, organizza il caos della materia e unisce gli opposti.
Allo stesso modo, spesso nelle mie composizioni emergono forme come la mandorla e il cerchio. La mandorla può essere anche circolare o composta da due cerchi ad incastro. Queste forme mi offrono la possibilità di giocare con l’apertura e la luminosità.
C’è anche una sorta di involucro protettivo nei miei assemblaggi, che si esprime nei materiali e nelle loro peculiarità, sia nella morbidezza della pelliccia che negli oggetti più duri o spinosi. Non è necessariamente qualcosa di premeditato, ma più un’osservazione ricorrente che faccio a posteriori e che cerco di capire.

La natura è molto presente nella tua pratica artistica. Come ti relazioni con il mondo naturale e quanto esso è anche di ispirazione per la tua ricerca?
In effetti, la natura ha un posto importante nel mio lavoro. La ricchezza delle sue forme organiche, trame e colori mi affascina. Cerco di rivelare e ingrandire tutto ciò che non è visibile al primo sguardo o ciò che è stato trascurato. Cerco di trovare un nuovo ordine del mondo attraverso la riconciliazione tra la pianta, l’animale e l’umano. È anche una messa in discussione del rapporto tra uomo e natura che potrebbe sembrare ambito dell’ecologia anche se non è, in effetti, l’obiettivo del mio lavoro.
La natura è molto presente anche in tutti gli oggetti trovati, raccolti, recuperati dal mare, nel sottobosco, nei giardini. Ho la fortuna di vivere in riva al mare e di poterne sfruttare la diversità nelle sue molteplici forme ed essenze. Ma c’è anche la questione della vita e della morte che è presente con gli elementi naturali. C’è una forma di rinascita che alimento attraverso il riciclo con – in un certo senso – la conservazione di oggetti vecchi, antichi. A volte fanno parte di eredità e sono destinati a scomparire: oggetti da collezione, ricordi del passato che appaiono dagli armadi delle curiosità (vecchie pellicce, conchiglie, coralli, alghe). E io ho così la sensazione di dare loro una nuova vita.

Osservando i tuoi lavori si deduce che molte delle tecniche che impieghi richiedono tempo, pazienza e precisione. È il tuo ‘fare arte’ anche un esercizio zen in fondo? Quanto è catartica l’arte secondo te – come artista ma anche come osservatore?
Sento sempre di più il bisogno di prendermi del tempo nel mio lavoro, e la necessità di rifocalizzarmi. Dopo la prima fase con le scelte costruttive dove tutto procede molto velocemente nella ricerca delle varie combinazioni, mi piace lasciarmi andare in un lavoro di gesti ripetitivi. Questa è un’evoluzione molto significativa del mio lavoro, perché originariamente era piuttosto minimalista. Mi piace perdermi nei gesti ripetitivi di “pungere” con gli spilli e i chiodi o anche di avvolgere il filo. C’è qualcosa di ipnotico, una specie di meditazione, di smarrimento. Anzi, mi svuoto e mi libero, diventa addirittura una dipendenza, ossessivo. Quanto all’osservatore, non lo so proprio, è difficile per me parlare come fruitore, ma spero che riesca a subire una certa fascinazione capace di trasportarlo altrove.
Come nascono e si sviluppano le tue opere?
Il mio laboratorio è pieno di materiali raccolti negli anni. Spesso lavoro a più opere contemporaneamente, il che mi permette di prendere il tempo per riflettere. Si crea un dialogo tra questi materiali e queste creazioni simultanee. Alcune parti sono abbastanza veloci da realizzare, altre possono riposare per diversi mesi prima di riuscire ad essere terminate. Un processo che avviene attraverso lunghe fasi di costruzione e decostruzione, finché non trovo un equilibrio che mi soddisfa. Lavorando con molti materiali e materie complesse, cerco di semplificare per arrivare alla sintesi. Organizzo le forme per mantenere solo le linee essenziali. Cerco una lettura diretta, semplice e scontata a prima vista. Non c’è proprio una tecnica sistematica, si tratta costantemente di trovare nuove soluzioni che invento adattandomi ai materiali e alle loro particolarità.

Alcuni lavori sono custoditi da una campana di vetro. È una precauzione per preservarli oppure ha un significato concettuale?
La presentazione dentro a antiche campane in vetro soffiato è effettivamente giustificata da una funzione di conservazione e protezione; alcuni assemblaggi possono infatti risultare piuttosto fragili. Ma possono riferirsi anche all’evocazione di presentazioni di studioli delle curiosità, che rafforza l’idea di spazializzazione, dell’intimità di un oggetto che appare prezioso e di cui vogliamo prenderci cura. Con la campana di vetro si ha quasi una sensazione di ritiro in una miniatura, con l’incontro tra l’intimità dell’oggetto e la concentrazione di un mondo contenuto, fatto di materiali eterogenei. Questi antichi oggetti avevano la funzione di proteggere corone nuziali, statuette religiose. L’opera è deposta, in attesa, isolata dal mondo in questo involucro protettivo. Non creo mai l’opera per la campana di vetro ma cerco piuttosto quella più adatta al lavoro, perché il rapporto tra le proporzioni della campana e quelle dell’opera è ovviamente molto importante.
Questa modalità di presentazione non è però sistematica, le mie creazioni possono talvolta essere riposte sotto plexiglass, in scatole entomologiche, ma anche senza un elemento protettivo, semplicemente fissate su una base o appese direttamente al muro.

Quanto c’è di te nelle tue opere e qual è il lavoro in cui ti riconosci maggiormente (e perché)?
Sono particolarmente legata ai miei lavori più recenti, ho bisogno di tempo per potermene separare facilmente. Separarsi da un’opera con cui trascorriamo del tempo e dai legami che si creano con la nostra stessa storia, non è mai cosa di poco conto. Molto spesso, non mi spiego il perché di questo attaccamento, ho una preferenza per le creazioni più astratte. È un’alchimia fisica, che colpisce più la parte emotiva che l’intelletto, e tutto questo è abbastanza misterioso anche per me.