Cecilia Vicuña. Una poesia di nodi e fili
*Foto in evidenza: Cecilia Vicuña at the 59th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia, The Milk of Dreams. Installation view, photo by Marco Cappelletti. Courtesy the artist; La Biennale di Venezia; and Lehmann Maupin, New York, Hong Kong, Seoul, and London
“L’arte non è ciò che pensi che sia, ma è ciò che sta per accadere. È coscienza e consapevolezza”.
Cecilia Vicuña
NAUfraga è l’installazione che l’artista cilena Cecilia Vicuña (Santiago 1948) ha pensato per la 59° Biennale di Venezia. Tratto dalle parole latine navis (nave) e frangere (rompere), NAUfraga è l’emblema, ci dice, del “nostro fallimento a prenderci cura della terra”, è una riflessione sullo sciagurato sfruttamento delle risorse naturali che sta facendo lentamente sprofondare la città dei dogi e con lei tante altre terre disseminate nel mondo. Funi, spaghi e piccoli detriti, ritrovati intorno a Venezia e degni di un Borges clochard (conchiglie, pezzetti di plastica, brandelli di reti, cordicelle, fili di paglia…), restano sospesi nello spazio come le piume degli amuleti indiani, senza peso e senza difese, in balia del vento e degli spiriti.
Fragili, consunti e indifesi, quelli di Cecilia sono resti perduti nell’indifferenza del mondo, flebili tracce di un tempo trascorso, presenze che non rivendicano un valore materiale, ma poetico ed evocativo. L’opera, racconta infatti l’artista, è un viaggio “verso la memoria della Laguna, la sua vegetazione e le corde annodate dai primi abitanti”, è un catalogo di piccole cose provvisorie, è il ricordo di gesti antichi, ma è anche una preghiera di speranza: “possa il fruscio dei suoi ramoscelli muovere il nostro cuore affinché ci prendiamo cura della Terra”, perché la Terra si prende cura di noi. Nei luoghi degli antichi Aymara e Mapuche, il sole, il vento, l’acqua e le rane hanno vegliato sulla piccola Cecilia: “I miei genitori erano giovanissimi quando sono nata. Mia madre la mattina mi salutava: «Ci vediamo dopo», e scompariva per l’intera giornata. Ero lasciata sola in mezzo ai grandi canali di irrigazione: avrei potuto affogare, ma non è successo: si sono presi cura di me le rane, il vento, il sole. Mi sentivo abbracciata e protetta dalla natura, e così mi sento ancora”.
Figlia e nipote di intellettuali attivisti (il nonno era un avvocato-scrittore che si è sempre battuto per i diritti civili e ha difeso Pablo Neruda dalle persecuzioni politiche del 1948; la zia era scultrice; il padre un avvocato ecologista e la madre una cantante), sorella dei fiumi e delle forze della natura, Cecilia è erede della cultura Quipu, parola che letteralmente significa “nodo” (dal quechua khipu). Il Quipu era un sistema matematico, fatto di groppi e di cordicelle colorate, usato dagli Incas, che non avevano una scrittura, per conservare e trasmettere informazioni.

Vicuña lo ha fatto rivivere, per intrecciare i fili della storia con la natura, le esili corde dell’umanità con l’infinito dell’universo, per tentare di risvegliare le coscienze: “Dal mio punto di vista, il Quipu è un modo per far sapere alle persone che stanno entrando in un altro concetto di spazio e di tempo in relazione al cosmo”.
Il suo primo Quipu è del 1966 e prende forma dalla visione delle immagini di un libro sui popoli andini preso in prestito dalla libreria di zia Rosa (la scultrice). Lo aveva chiamato Il Quipu che non ricorda nulla e quelle cordicelle erano per lei come musica, un elegiaco percorso di fili e particelle sospesi, di promesse, di sogni e di struggente preghiera. Nelle sue mani il Quipu è diventato poesia concettuale e performativa, una costellazione di umane verità e di riflessioni sul destino del mondo.

L’arte di Cecilia Vicuña nasce sempre dalla poesia (ha coltivato la scrittura fin da quando aveva 13 anni), che a sua volta si nutre di ricordi, di sapienza, di ritualità, di storia, del senso profondo della vita, della ricerca della giustizia e di ciò che fa essere davvero uomini. Un sistema complesso che i quechua delle Ande sono stati capaci di riassumere in un solo termine: sonqon, ovvero l’energia del cuore che si muove nell’azione, nella bellezza, nella generosità. È questa vitalità profonda, a tratti anche dolorosa (proprio perché nasce dalla consapevolezza della nostra caducità e dall’idea che l’uomo è mare e demone, cosmo e Uku Pacha), che si coglie nelle sue opere, dai dipinti alle installazioni, dalle parole scritte ai video.

Femminista e attivista convinta, Cecilia ha una vita segnata da incontri e esperienze profonde. A vent’anni, dopo essere passata per New York, Los Angeles e Berkeley, è a Città del Messico, dove vive nella casa dell’artista surrealista britannica Leonora Carrington. Guardando la sua pittura, Cecilia si rende conto che quello era il metodo giusto per trasferire le immagini che aveva in mente e parlare al mondo. Nascono dipinti popolati da figure femminili, dai tratti primitivi e semplificati, che portano con sé un bagaglio di colori, di natura, di paure e di conoscenze.

Del 1969 è la sua prima personale di pitture al Museo National de Bellas Arte di Santiago. Intanto, alla metà degli anni ‘60, aveva iniziato una serie di minuscole sculture che aveva chiamato Precarios. Fissati con un semplice spago, intrecci di piume, pietre, legno, conchiglie, stoffa e altri detriti intendevano raccontare attraverso la propria fragilità la precarietà stessa dell’esistenza. Andrea Andersson, curatore del Contemporary Art Center di New Orleans, definisce queste opere “un’estetica dell’esilio”.

E Vicuña aveva scelto l’esilio all’inizio degli anni ’70. Si trovava a Londra quando il violento colpo di stato militare contro l’ex presidente cileno Salvador Allende l’ha costretta a non tornare. Da quel momento, il senso di provvisorietà che già accompagnava le sue creazioni si è acuito e con esso il desiderio di preservare la storia e la cultura del proprio Paese, a cui ha affiancato tematiche sempre più urgenti come l’ecologia, il senso di comunità e il bisogno di giustizia sociale.
Perdersi tra le sue lunghe colonne di garze colorate, farsi accarezzare dalle sue soffici funi di lana o restare impigliati tra le sue cordicelle come particelle erranti è per lo spettatore un cammino iniziatico, un percorso che va dalle origini al futuro, e viceversa, passando sempre per il sé.
Ricordo, come se fosse oggi, il meraviglioso girotondo di liane in lana grezza rossa che, simili a rosari infuocati, dopo essere state “battezzate” nelle feconde e mitiche acque del Mar Egeo erano state appese al soffitto della 14° Documenta ad Atene. Era il 2017 e anche allora a colpirmi è stata l’intensa nota poetica di un lavoro che scavava nella difficile verità delle cose, porgendoti però la fune per la via di salvezza.

Un percorso di ricerca, quello di Cecilia Vicuña, coerente, caparbio e lungo ormai mezzo secolo, per il quale le è stato meritatamente conferito il Leone d’Oro alla carriera a questa edizione della Biennale e che prossimamente verrà celebrato, con un allestimento site-specific, anche alla Turbine Hall della Tate di Londra (dal 13 ottobre 2022 al 16 aprile 2023).