CHRISTELLE JEANNE LACOMBE
Christelle Jeanne Lacombe, classe 1969, vive a Parigi dove esercita come psicanalista con adolescenti affetti da problematiche psichiche.
A questa professione affianca il lavoro d’artista attraverso il tessile, la ceramica e l’incisione. Per lei, la pratica creativa e la psicoanalisi sono fatte della stessa texture: la sua ricerca è alimentata dall’intreccio tra parola e linguaggio plastico. Il suo lavoro artistico si è progressivamente orientato verso il tessile sostenuto dall’attenzione per le problematiche della scrittura legata al corpo.
In occasione della sua partecipazione alla mostra in corso al Museo del Ricamo e del Tessile di Valtopina, abbiamo approfittato per rivolgerle qualche domanda.

Come sei arrivata al ricamo come medium espressivo?
È successo abbastanza tardi, solo una decina di anni fa. Diverse circostanze mi hanno gradualmente spinto verso questo tipo di lavoro con i tessuti.
Il mio lavoro di psicoanalista, in uno studio indipendente e in un centro ricreativo, a contatto con gli adolescenti e tramite l’uso di medium come il tessuto, mi hanno indicato questa strada. Ci riuniamo per la durata di una piacevole passeggiata fatta di parole e gesti. I gesti si intrecciano come il flusso delle parole che vagano lentamente tenendo il ritmo delle attività.
I gesti legati al cucire, tagliare, assemblare producono un’opera d’arte tessile. Uno sbocciare, come un tentativo di radicare l’essere vivente in un terreno sensoriale. La sensualità delle trame e la gestualità specifica legata al lavoro con il tessuto ci offrono quei confini necessari a cingere un corpo ma anche un mondo intero giorno dopo giorno, punto per punto, procedendo per piccole rivoluzioni, incorniciando lo spazio con il lavoro delle mani.
Attraverso questi incontri il mio lavoro creativo mi ha portato gradualmente verso i tessuti spita anche da un’intensa considerazione delle tensioni esistenti tra il linguaggio e il corpo umano.
Il mio processo creativo è tessuto con fili diversi, ceramica, incisione e tessuti.
Un primo nesso creatosi tra la ceramica e il tessile ha portato alla produzione di “body fictions”, dove ho sperimentato la possibilità di giocare con la leggerezza e l’elasticità del volume. L’elasticità del tessuto contribuisce a sfatare le convenzioni di una grammatica iconica. Si sono generate forme senza volto, senza idee o intelligenza.
Parallelamente, sviluppavo il mio lavoro di incisione. Il tessuto, i cerchi, gli annodamenti si affermavano come la scrittura su lastre di rame e linoleum.
Da bambina lavoravo a maglia piccoli campioni e mia madre, un po’ perplessa mentre si dedicava con grande competenza al lavoro ad ago e a maglia, mi diceva: “Che filo stai filando, ragazza?… non ha senso”. Per molti anni non ha condiviso con me il suo sapere. Il termine “filare” è qui una metafora, usata comunemente per indicare che si stanno fabbricando e raccontando storie.
Il ricamo era un processo conosciuto già nel Medioevo, che consentiva di decorare tessuti e arazzi e di dare vita a vere e proprie narrazioni. Una necessità di produrre storie proprio come il poeta apre la strada alla rivelazione di un atto significante, come l’atto dell’invenzione. Tessere una narrativa era necessario per conservare uno spazio per il non-senso, per stare alla larga da un significato fuorviante. Una condizione essenziale perché la lettera possa svolgere il suo lavoro di tagliare, girare, prendere, lasciare. La lettera può essere espressione del corpo finché è in movimento.

La cifra inconfondibile dei tuoi lavori è una fitta pseudo-scrittura ricamata in blu, segni grafici che evocano una calligrafia corsiva scorrevole e veloce senza significato esplicito e leggibile. Qual è il senso di questi segni?
Gli esseri umani, immersi nel linguaggio, sono spiazzati quando la parola si manifesta, si rovescia, colpisce nel segno, come parole che scorrono nelle vene.
L’intero corpo reagisce ed è sopraffatto dall’enigma di questi caratteri e lettere.
Le radici etimologiche che sottendono la vicinanza fonologica tra “testo” e “tessuto” legano per sempre la nozione di testo al campo lessicale delle parole usate nei tessuti. La subcoscienza del creatore riflette ossessivamente su ciò che sembra emergere troppo chiaramente, risultando ovvio. Come Penelope che cuce e disfa la sua tela, il lavoro del poeta nei racconti di Omero lega e slega i sotterfugi poetici del significato. Mi vengono in mente le parole di Derrida, l’essenza di un testo risiede nella dissimulazione della sua composizione, nella disposizione e nella combinazione dei fili che lo compongono. “Un testo non è un testo se non nasconde al primo venuto, al primo sguardo, la legge della sua composizione e le regole del suo gioco. Un testo rimane, inoltre, per sempre impercettibile. La sua legge e le sue regole non sono, tuttavia, covate nell’inaccessibilità di un segreto; semplicemente non possono mai rivelarsi, nel presente, come qualcosa che si possa rigorosamente chiamare percezione” (Jacques Derrida, La Dissémination, Le Seuil 1972 P.71)
L’architettura, la regola e la struttura sono preoccupazioni per dare forma a un testo corporeo fittizio indispensabile per contrastare la voracità di capire, ma anche per placare gli eccessi del corpo che danno origine a terre sterili.
La macchina da cucire diventa quasi una macchina da scrivere. Una sorta di macchina per scrivere a mano! A sua volta pigra o impaziente.
La scrittura corsiva è una forma di scrittura che coinvolge il corpo, la sua energia, il suo movimento, le sue incertezze, le sue esitazioni e l’urgenza di posarsi su un supporto.
Dal ” jumble” al ” doodle “, i segni diventano scrittura. Nel 1973, durante il seminario Encore, con un termine vicino a “scribbling” (scribacchiare), Lacan parla della scrittura come di uno “doodling ” (scarabocchio). La scrittura è un segno che va visto come effetto linguistico. È così che funziona lo scarabocchio…” (Jacques Lacan, Encore, 1975, St-Amand, Le Seuil, p110, riferendosi al testo Litteraterre e alla scia di linguaggio che costituisce la scrittura).
In Encore, il 15 maggio 1973, Lacan dice: “La scrittura è un segno in cui si può leggere un effetto del linguaggio. Quando scarabocchio qualcosa, e spesso lo faccio anch’io, è il mio modo di preparare quello che voglio dire. Ed è sorprendente che sia necessario verificare la scrittura in questo modo”.
Mi piace chiamare questo tipo di scrittura ” sublanguage ” (sublinguaggio).
In questo caso, il sublinguaggio illustra, di lettera in lettera, i semi che vengono gettati sulla tela bianca del tessuto.
La mia posizione di scriba in questo lavoro è stata l’occasione per permettere alla scrittura corsiva di far emergere il sublinguaggio.
La contrapposizione dei significati è un prerequisito che mi permette di contrapporre l’imperfezione alla meccanica quasi perfetta del ritmo della macchina da cucire, come se fosse una macchina parlante. Trovo in questo una forma di alterità che mi permette di duplicare l’alienazione. All’interno della sua meccanica quasi perfetta metto a nudo le carenze, le mancanze, l’effervescenza, la saturazione, la suspense, la faglia, il vuoto. Questo è necessario per permettere al linguaggio di giocare e di assicurarsi spazi fuori dal coro.
La mia serie di quaranta “finzioni epistolari” rivela una sorta di linguaggio “sottosopra”. Il percorso del pensiero non è lineare, ma oscilla tra il confuso e l’ordinato, con occasionale umorismo.

Perché scegli proprio il colore blu?
Ho iniziato le mie prime lettere tessili utilizzando il filo nero, ritenendolo più grafico, ma l’enfasi e la presenza significativa dell’uniformità nera della nostra scrittura computerizzata mi ha portato a cercare un colore più simile alla penna, evocando così direttamente i simboli fatti a mano.
I tuoi ricami hanno i fili liberi. È una scelta tecnica, estetica o ha un significato?
Certi discorsi non lasciano spazio, soffocano il pensiero, sono chiusi ermeticamente e non producono residui. Una breccia può rivelare il lato nascosto e il residuo, che è un fattore indispensabile del desiderio.
Questo groviglio operato nella parte più interna del discorso offre una sorta di permanenza e anche una sorta di spazio di riserva per l’individuo. Questi fattori permettono alla forma e al contenuto di differenziarsi e di combinarsi.
I fili sciolti sono residui che permettono al lavoro di continuare. Danno corpo ai resti. I resti esistono come tracce di fili sospesi che suggeriscono una possibile ripetizione. In giapponese tutto ciò che lascia un segno si chiama tempo. Tempo e luogo sono inseparabili, il segno diventa il luogo.

Ricamare è esercizio lento, paziente, ripetitivo, quasi zen. C’è una componente terapeutica e/o catartica in esso?
Il movimento ripetitivo si svolge sotto un forte impulso e io devo permettere l’emergere dell’incontrollato e allo stesso tempo contenerlo. Questo processo ha una sua rilevanza per me e mi àncora a uno spazio definito.
Un tempo non definito su un quadrante, un tempo diverso in cui mi possa ambientare ed essere completamente assorbita e libera. La proliferazione dei cerchi apre un gioco di ripetizione rinnovata che consente a segni unici di apparire dal nulla per depositarsi. Ogni volta che prendo in mano il mio lavoro nasce qualcosa di singolare, per lo più legato a una preoccupazione.
Questa preoccupazione, fatta di dubbi acuti, rafforza un senso di angoscia come se fosse la prima volta, come se rinnovasse i primi maldestri passi del lavoro.

A quali opere stai lavorando in questo periodo?
Sto ancora lavorando sulle letter fictions. Ricucio e disfo “quel segno” “quella lettera” perché è essenziale che la lettera rimanga viva in questo modo. Sto allargando i miei orizzonti. Ricamo grafiche con colori che assomigliano a segni infantili sfocati. Sto anche lavorando alla mia ricerca sui supporti ceramici. Uno in parallelo all’altro, nessun segno tracciato senza un mezzo di tessitura, un filo filato?
Lavoro con il minimo indispensabile di significanti. Si tratta dell’intreccio tra ordito e trama, verticale e orizzontale. Il principio risiede sia nell’antagonismo sia nell’armonia che esiste tra l’ordito e la trama.
La mitologia greca e romana ci ha lasciato in eredità un ricco uso dell’arte della tessitura. La tessitura viene usata come metafora del poeta tessitore, del tessitore domestico, del tessitore politico.
“La tessitura era un modo per districare un grande groviglio di cose in modo da mettere ogni cosa al suo posto. Si tratta di intrecciare cose diverse, contrarie, ostili, in modo da produrre una tela armoniosa, unificata e degna di vestire la grande dea di Olimpia” (John Scheid, Jesper Svenbro, The work of Zeus, Myth of Weaving and fabric in the Greco-Roman world, Errance Publications p19).
Questo è il mio modo di mettere in discussione e sfidare il minimo indispensabile di significanti, ciò che è imperfetto tra corpo e linguaggio, in questo spazio intermedio che separa e unisce. In equilibrio su questo crinale, su questa linea di tensione stabilita dal ritmo della tessitura, lavorando persino la trama di un velo, l’alternarsi svolazzante del velare e dello svelare. Come osserva Henri Michaux in questa poesia: “Blindfold with a tight headband, stitched to the eye, slipping inexorably. Like a metal shutter closed over a window. But it is with the blindfold that he sees. It is with what is stitched that he unpicks, that he re-stitches, with absence that he takes and possesses”
“Bendato da una fascia stretta, cucita all’occhio, scivolando inesorabilmente. Come una persiana di metallo chiusa su una finestra. Ma è con la benda che egli vede. È con ciò che è cucito che disfa, che ricuce, con l’assenza che egli prende e possiede”.
Ritmo di lavoro
Lavoro negli interstizi di tempo, ogni volta che mi è possibile.
Questi piccoli spazi mi liberano dagli eccessi e fanno sì che i fili si muovano liberamente.
Gli indiani Navaho hanno un’usanza che raccomanda una certa moderazione nella tessitura e prescrive cure contro le dipendenze dell’arte. Si raccomanda persino ai tessitori di non terminare completamente il lavoro, lasciando spazio per un’apertura.