Cronache dalla Biennale di Fiber Art della Sardegna
Pietrina Atzori
Pietrina Atzori è nata e cresciuta a San Sperate negli anni in cui il paese sardo viveva un fenomenale fermento culturale iniziato negli anni sessanta grazie a Pinuccio Sciola che vi ha portato artisti di fama internazionale coinvolgendo attivamente un’intera comunità. Questo clima vivace ha indubbiamente influenzato – per sua stessa ammissione – la sua vita e le sue scelte.
Artista affermata con all’attivo partecipazioni a progetti, mostre e premi nazionali ed internazionali, alcuni suoi lavori sono stati selezionati per l’edizione della Biennale di Fiber Art Sardegna da poco inaugurata al MURATS di Samugheo.
Radici, territorio e comunità sono indubbiamente le tre chiavi di lettura della ricerca e della pratica artistica della Atzori. Partendo da un sistema di valori in cui queste tre componenti si riconoscono, esplora e sperimenta materiali e tecniche, attinge a piene mani dal patrimonio tradizionale, culturale, ancestrale di una terra antica riconoscendone il valore imprescindibile per trovare strumenti, forme e linguaggi che sappiano interpretare la contemporaneità. Impegnata su più fronti anche in progetti di tutela e promozione delle lane locali, sensibile ai temi sociali ed ambientali, la Atzori riconosce alla pratica artistica il dovere dell’impegno per dare voce e spazio alle istanze ed alle contraddizioni della società e del tempo di cui l’artista è pienamente figlio.
Abbiamo approfittato della partecipazione ad INVENTARIO20 per saperne di più sui suoi ultimi interventi.
Fragilità, Pietrina Atzori
La fragilità è al centro della riflessione di una delle tue opere inclusa nella seconda Biennale di Fiber Art Sardegna in corso al Museo MURATS. Mi racconti di che si tratta?
Tempo prima che esplodesse la pandemia riflettevo sul concetto della fragilità, complice la lettura di un testo di Vittorino Andreoli, “L’uomo di vetro – la forza della fragilità”.
Con l’aggettivo “fragile” si intende la caratteristica di qualcosa che tende a rompersi facilmente riferibile sia alle cose sia all’essere umano.
Fragile, oltre ogni aspettativa è risultata l’intera umanità in questo periodo pandemico.
Sono stata molto impressionata dalla schiacciante virulenza della pandemia che aggredisce i corpi in modo subdolo e letale. Il corpo, nudo e crudo che pensiamo tanto forte e invincibile in realtà è tanto fragile ed esposto.
Così il corpo con la sua nudità/fragilità, è entrato nel mio lavoro.
Con l’intento non di vestirlo bensì di evocarlo ho realizzato un kimono di plastica trasparente su cui ho accostato i leggeri teli di organza ricamata.
Successivamente, complice il periodo sospeso, fitto di implicazioni individuali e collettive, ho cominciato a ricercare e appuntare vocaboli che gravitassero intorno al tema della fragilità umana e non umana. Ho selezionato sessanta parole attinenti, anche per contrasto, al tema della fragilità, le ho tradotte dall’italiano all’inglese, ed infine le ho ricamate su sei teli di organza leggerissima.
Ho scelto di utilizzare teli di organza trasparente e leggerissima per affidargli il significante della fragilità. Compito che la garza ha assunto fin da subito, almeno con me. Infatti già dal momento del ricamo mi ha imposto una operatività morbida e garbata in cui sovente mi sono trovata letteralmente a soffiare il filo di ricamo per “agevolare” l’accesso dentro le trame della garza. Ho dovuto prestare la massima cura per regolare la giusta tensione del filo ed è stato necessario trovare una forma che permettesse la leggibilità della “scrittura” e pulizia nel retro.
Mentre il corpo/kimono di plastica l’ho assemblato con una cucitura a macchina, i sei teli di organza ricamati (sei sono i tagli di tessuto che assemblati formano un kimono nel suo schema essenziale) li ho appena giuntati sulla linea delle spalle, lasciandoli liberi di muoversi al minimo movimento d’aria
Alla scelta dei materiali, al contenuto dei vocaboli ricamati, e alla intuibile delicatezza del ricamo, affido il senso di questa opera che vuole essere spunto per una riflessione sulla condizione umana.
Alcune delle parole ricamate: fragile, cristallo, luce, acqua, pellicola, filtro, trasparenza, puro, aria, vetro, salute, umano, nervi, fiore, limpido, opaco, paura…
Il secondo lavoro in Biennale invece è un’opera realizzata con la lana sarda per la quale stai sostenendo diversi progetti di tutela, promozione e salvaguardia…
Si, infatti. La seconda opera presente in Biennale è una delle quattro tavole, di grandi dimensioni, di cui si compone un “percorso” che ho intitolato Connessioni territoriali (anno 2019). Lana, seta, lenza di nylon, ferro e luce tentano un racconto tra materiali ancestrali e contemporanei, naturali e no, e simbolico identitario.
La lana della pecora nera di Arbus, quella bianca di Mamoiada e di Nurri sono poste in relazione con la seta, lavorata finemente all’uncinetto a racchiudere il bozzolo richiamando in tal modo l’antica coltivazione della seta in Sardegna di cui è rimasta ancora traccia nel territorio di Orgosolo; con la lana rossa, tinta con tecniche naturali, lavorata all’uncinetto e ricamata, associata all’alluminio, si formano terre e isole, meteore e costellazioni, universi dove la materia esercita attrazione e repulsione. Poi arriva l’accostamento del ferro, in tessere squadrate, ossidate dal tempo, che evocano i campanacci delle maschere tradizionali dei Mamuthones e infine la lenza di nylon, in un confronto tra materie compatibili e incompatibili con un sistema ecosostenibile.
In Connessioni territoriali ho tentato una opera/sintesi del mio recente progetto di arte sociale realizzato nel 2019 con l’utilizzo della lana della pecora nera di Arbus.
Lo scopo del progetto è stato quello di far conoscere questa preziosa risorsa naturale e bene identitario destinata ad oblio certo. Portare questa lana in tutta l’Italia, percorsa in 17 giorni in scooter, ha consentito di realizzare un grande “ordito” su cui formare un “tessuto culturale” per il futuro a sostegno delle biodiversità e della comunità che la custodisce e con essa si prende cura del complesso delle risorse naturali e ambientali in cui vive.
Parallelamente tento una sovversione dell’opinione comune che definisce il colore nero. Nella cultura occidentale è il colore negativo assoluto.
Quando parlo di sovvertimento del significato intendo suggerire di guardare ad esso come al colore da cui invece tutto ha origine. L’assenza di luce non è che l’attesa che essa arrivi. Il nero non è la fine ma il punto in cui sorge la luce. Per avvicinarsi a questo sovvertimento del colore nero basti pensare alla potenzialità generatrice e feconda del ventre materno che concepisce nell’oscurità e prepara all’incontro con la luce della nascita.
A quale progetto hai lavorato in questo anno in cui mostre e progetti espositivi hanno necessariamente dovuto rallentare?
Questo anno e mezzo è stato terribile per tutti e come sappiamo si è specialmente accanito sulle categorie più deboli, tra queste il mondo della cultura e delle arti in tutte le sue manifestazioni. Tutto ciò inevitabilmente ha condizionato anche le mostre programmate a cui avrei dovuto partecipare che sono state annullate o nel migliore dei casi posticipate, così come ho dovuto sospendere un progetto performativo sulla pecora nera a cui stavo lavorando.
Il tempo del primo confinamento ha richiesto un continuo “riposizionamento” e adattamento sia emotivo che percettivo. Molteplici le reazioni, come è normale che sia. Così ho cercato un modo di dare un senso a ciò che vivevo creando un diario per annotare questi giorni, per segnarli, in qualche modo “inciderli” nella memoria, da poter rileggere a futura memoria.
Ogni giorno ho ricamato un oggetto, una carta, un tessuto. Poteva trattarsi dello scontrino della spesa al supermercato, piuttosto che la vaschetta di polistirolo del prezzemolo, la reticella di imballo dell’aglio o i filtri della tisana sorseggiata al pomeriggio, una banconota da cinque euro come il tester di una crema per il viso, una vecchia lettera, l’etichetta di un capo di abbigliamento, la scatoletta di uno scrub o l’incarto della farmacia e così via. In questo modo ogni giorno è stato “appuntato” come si fa su una pagina di diario. Ogni giorno un elemento che lo ha attraversato è stato ricamato, cucito o operato con l’uncinetto.
Durante il secondo lockdown, che ho vissuto con maggiori risorse interiori di adattamento ho potuto dedicarmi agli studi e approfondimenti richiesti dall’opportunità di partecipare ad una call internazionale intitolata Radici promossa dall’associazione pugliese Futuro Arcaico.
Ho trovato il tema molto stimolante e avendo sempre per la testa il tema della pecora nera, della sovversione del significato nero, immaginando il modo per aderire al tema, ho pensato di realizzare un progetto mixed media sul fenomeno delle Madonne nere nel meridione d’Italia che ho intitolato Nigra sum sed formosa (anno 2021). Approfondendo lo studio della manifestazione del sentimento religioso in torno alle Madonne nere è apparso evidente che esso è vivo e vitale, e nulla della contemporaneità è lontano dalla sua origine in quanto a spiritualità, devozione popolare e tradizioni.
Per la restituzione di questo lavoro ho proceduto prendendo sei “Santini” di icone mariane che ho fotografato e successivamente ne ho manipolato l’immagine apportando dei cambiamenti minimi, ma significativi, alle tonalità degli abiti e soprattutto al colore dell’incarnato. In questo modo si dichiara che tutte possono essere alla stregua di Madonne nere poiché la fede colma il bisogno di spiritualità indipendentemente dal colore della pelle.
Una sorta di operazione di creazione di nuove immagini a cui essere devoti in cui si va oltre il concetto di vero o falso e si afferma la vera autenticità a partire dal sentito e dal percepito. Un successivo passaggio è stato quello della stampa su canvas plastificato delle icone “reincarnate” per adornarle con un ricamo fatto a mano con fili d’oro e perline preziose. Ogni tavola è stata completata con una cornice in pizzo. L’opera si completa con i sei santini originali, che impreziositi da una trina di colore turchese contemporanea sono restituiti singolarmente su tavolette di legno. Le sei tavole ricamate dialogano così con i santini originali, specchiandosi nelle loro differenze e ammiccandosi complici verso chi le osserva.