GIULIA PELLEGRINI
L’indagine compiuta da Giulia Pellegrini ha come focus il rapporto che si instaura tra individuo e ambiente circostante. La sua è una ricerca che mescola la dimensione performativa a quella installativa, ne consegue la creazione di uno spazio immersivo in cui l’individuo si confronta con la materia e le sue caratteristiche.
Nella tua ricerca artistica è evidente una predilezione per i materiali tessili. Da dove nasce questo interesse?
L’interesse nei confronti dei materiali tessili è iniziato durante il periodo accademico. Cercavo un materiale vivo, capace di adattarsi alle superfici con le quali entrava in contatto e ho trovato nel tessuto il materiale perfetto. Da quel momento ho intrapreso un viaggio nei tessuti e nei filati per scoprirne le caratteristiche e ho seguito corsi di ogni tipo per capire le possibilità che questo materiale poteva offrirmi.
Il tessuto che nasce dall’interdipendenza di trama e ordito racconta una storia, registra ricordi, costruisce coesione sociale, incorporando equità e coscienza ambientale.
Compreso tutto questo, non ho potuto che innamorarmene e decidere di prediligere quasi unicamente questo materiale nei miei progetti.
Nel 2021 hai realizzato Ambiente, una grande installazione site-specific per Cittadellarte Fondazione Pistoletto nata durante la residenza d’artista Circulart 2.0. Puoi raccontarci come è nato e qual è stata l’evoluzione del progetto?
Circulart 2.0 Art Interwoven with the Supply Chain è un progetto curato e prodotto da Cittadellarte che permette agli artisti di confrontarsi con i diversi comparti che compongono la filiera tessile attraverso la collaborazione con aziende che hanno deciso di abbracciare un’etica di rispetto nei confronti del nostro Pianeta. Grazie a questo progetto ho compreso il mio essere ospite su questo Pianeta e quanto la mia libertà di decisione e di azione richieda non solo consapevolezza ma anche informazione su ciò che consumo e su ciò che le mie scelte determinano. Da questa osservazione è nato Ambiente, un bosco interamente costruito con cimose in poliestere (materiale di scarto prodotto da un’azienda tessile visitata durante la residenza) e deliberatamente composto da nodi elementari giustapposti l’uno all’altro per dimostrare l’impatto che ogni nostra piccola scelta ha sul Pianeta. Ambiente invita il pubblico a decidere se completare questo luogo sapendo che gli aggiungeremo altro materiale non riciclabile o scegliere consapevolmente di lasciarlo incompleto.
Con Ambiente non ho ricreato nient’altro che un ecosistema senza vita, non molto diverso da quello che abbiamo egoisticamente edificato con i nostri vestiti nel deserto di Atacama.
Sempre nello stesso contesto è nato un altro progetto che hai intitolato Abito, in questo caso l’attenzione sembra focalizzarsi sul rapporto tra il sé e l’altro. Qual è il messaggio che vuoi diffondere attraverso questo lavoro?
Il messaggio di cura e rispetto nei confronti di noi stessi, degli altri e del Pianeta attraverso l’analisi di uno dei tre bisogni essenziali della specie umana: vestirsi.
Oggi ci vestiamo non tanto per soddisfare bisogni concreti, quale quello di proteggerci dagli agenti esterni, ma per impadronirci di simboli da esibire. Nello spazio di pochi decenni ci siamo allontanati dal pensiero che l’abito sia un’estensione della nostra pelle (per riprendere le parole del sociologo Marshall McLuhan) e che come tale è importante che si sovrapponga in modo armonico ad essa. Il tessuto usato nella costruzione di un abito non ha valore solo per via del tempo e dell’abilità necessari per costruirlo ma perché racconta una storia molto complessa che comporta numerose trasformazioni della materia e che merita per tale motivo rispetto e cura.
Ho voluto per Abito usare cinque tessuti differenti provenienti da cinque aziende tessili partners del progetto Circulart2.0: tre di origine animale (alpaca, lana, seta), due di origine vegetale (lino, cotone, misto cotone lino lyocell) tinti attraverso tintura naturale e caratterizzati ciascuno da una lunga etichetta e da differenti elementi indossabili doppi (doppia tasca, doppio guanto, doppia stola, doppia sciarpa, doppia manica). I tessuti scelti sono stati volutamente tinti con la pianta Rubia Tinctorum per mostrare le tonalità che una tintura naturale è in grado di donare a un tessuto rispetto a quelle sintetiche; l’etichetta mostra la storia del tessuto ponendosi in contrapposizione alle etichette che siamo abituati a trovare sui nostri capi; e i doppi elementi indossabili hanno il compito di invitare il pubblico a condividere questo nostro prolungamento con un’altra persona. Il titolo scelto per l’installazione, Abito, ci invita a riflettere non solo sull’abito in quanto indumento ma sul verbo “Abitare”. Il nostro corpo abita l’abito e se ne abbiamo cura e rispetto questo a sua volta potrà essere abitato da altri. Imparando a custodire quello che abbiamo, impariamo a custodire e ad avere rispetto anche degli altri e di conseguenza del nostro Pianeta.
Negli ultimi anni, hai partecipato a svariate residenze per artisti realizzate in diverse città e ambienti differenti. Cosa pensi di questo tipo di contesti? Sono realmente formativi per un artista?
Sono convinta che le residenze artistiche siano molto formative, perlomeno quelle che ho scelto e in cui sono stata selezionata. Mi hanno permesso di crescere sia da un punto di vista artistico-professionale che umano. Ho potuto collaborare e confrontarmi con scienziati, architetti, designer, alpini, pazienti psichiatrici, detenuti, anziani, bambini e aziende e entrare in contatto con luoghi e paesaggi unici. Mi hanno insegnato ad apprezzare l’altro, non giudicare e che il dialogo è qualcosa di estremamente prezioso.
Qual è il progetto a cui maggiormente legata e perché?
Mi sento legata a ogni progetto realizzato negli ultimi due anni perché frutto di una ricerca attenta, consapevole e matura ma Abitante, un’opera nata durante la residenza Falia* in Valle Camonica, ha un posto speciale nel mio cuore.
Per ricollegarmi alla domanda di prima, grazie a questa residenza ho potuto realizzare un mio sogno: quello di poter collaborare con una danzatrice (Alice Tagliaferri), un’abitante del luogo, che ci tengo a ringraziare.
Abitante è speciale perché parla in ogni suo millimetro del territorio che mi ha ospitata per circa un mese. Ho usato vecchie lenzuola donatemi da un abitante, le ho poi dipinte usando due piante trovate sul luogo (Ipericum Perforatum e mallo di noce), le ho impreziosite con bottoni in madreperla ricavati dal mollusco Tectus Dentatus (perché nella Valle di Lozio anni fa era attivo un bottonificio che li produceva) e infine ho potuto collaborare con questa meravigliosa danzatrice.
Abitante mostra le interazioni che nei secoli si sono susseguite tra la specie umana e l’ambiente attraverso un corpo femminile che agisce e si muove tra quattro pannelli doppiati in tessuto verde e marrone. Grazie ai bottoni presenti sui tessuti ci invita a trasformare le modalità con cui progettiamo i nostri scambi con l’ambiente e a ridisegnare i nostri percorsi in quanto abitanti di questo Pianeta.
Come scegli i materiali con cui realizzi le tue opere?
Cerco di scegliere materiali che hanno un bassissimo impatto ambientale. Prevalentemente si tratta di tessuti e filati di origine cellulosica o proteica che provengono da lotti fallati oppure da aziende italiane o estere che abbracciano i miei stessi valori. Nella maggior parte dei casi uso filati e tessuti non tinti per poterli tingere personalmente attraverso bagni di colore ottenuti da differenti tipi di piante. La tintura naturale è uno strumento che mi permette di ricollegarmi con quello che è l’ambiente in cui vivo e di avere la Natura come mia stretta collaboratrice in ogni fase di sviluppo del mio progetto.
A cosa stai lavorando adesso e quali sono i tuoi prossimi progetti?
Ho appena concluso un progetto, intitolato Albedo, nato con l’obiettivo di denunciare la fusione dei ghiacciai causata dai cambiamenti climatici di origine antropica e dalla necessità di sensibilizzare il pubblico ad aderire a un’etica della conservazione. Si presenta come una grande mantella (il cui tessuto è stato ricavato dall’albedo delle arance) dotata di un cappuccio indossabile, caratterizzato da una parte esterna bianca e da una interna sfumata di grigio e azzurro. Mentre la parte esterna mostra il ghiacciaio vivo, quella interna ne rivela il decadimento. Il pubblico indossando Albedo riporta in vita il ghiacciaio, togliendoselo lo riporta allo stato attuale, di scioglimento e deperimento.
Albedo è la prima opera di una serie che mi terrà impegnata tutto l’anno. I progetti futuri saranno legati a tutto ciò che stiamo rischiando di perdere. Parlerò di Amazzonia, di Barriere coralline, di Oceano, di Aree Umide e di Biodiversità.