Grazia Inserillo: essere, abitare, evolvere nella narrazione del filo.
Palermitana, classe 1988 Grazia Inserillo indaga l’aspetto antropologico dell’essere e dell’abitare partendo dai tradizionali mestieri della sua famiglia e riscoprendo l’arte di intrecciare il filo. Da questa attività antica attinge la sua ricerca artistica che negli ultimi anni l’ha portata ad esporre anche grandi installazioni tessili in diverse mostre in Italia, in Germania e negli Stati Uniti. Il suo lavoro è stato premiato in contest internazionali: “Arte y Enfermidades” a Valencia, il FAM Giovani Artisti Siciliani presso le Fabbriche Chiaramontane di Agrigento, il premio della BID Biennale Internazionale Donna di Trieste, il “Best 15 Prize” di Paratissima Torino lo scorso anno. Alcune sue opere, inoltre, sono state acquisite nelle collezioni permanenti d’arte contemporanea di musei a Palermo, Trapani, Salemi e dal Politecnico di Valencia.
Grazia Inserillo, ph. credit Primo Vanadia
Hai scritto che il tuo ruolo “nell’atto di tessere è duplice: dipanare le matasse per vedere in modo chiaro e annodare per non perdere, non dimenticare.” Cosa significa, cosa veicola e dove ti conduce il filo?
Il filo è il medium che mi permette di dialogare con il mio passato e con chi ha fatto parte della mia storia. Ognuno di noi ha delle matasse da dipanare, e per me è fondamentale prendermene cura, sciogliere i nodi, per lasciare posto al futuro. Non posso ignorare ciò che mi ha condotto oggi qui né tantomeno lasciare conti in sospeso. È una pratica fondamentale che assume un valore apotropaico, curativo e di salvaguardia del sé. Sbrogliare la matassa significa prendere le giuste misure dagli eventi ed evitare di farsi fagocitare da essi. Significa prendersi cura delle piccole morti che subiamo, riappacificarsi con esse per lasciare spazio alla vita. Allo stesso tempo dipanare non basta, bisogna creare dei nodi, dei punti saldi, delle ancore di salvezza: la mia salvezza risiede sempre nella memoria, nel ricordo degli eventi e delle figure guida della mia storia personale. Pertanto tessere è uno dei modi che prediligo per mantenere vivo e costante questo legame storico e mnemonico con i miei affetti e con le mie origini, inoltre, mi permette di intrecciare la mia storia con la storia del mondo, la mia memoria con la memoria e le immagini archetipiche universali.
In un passaggio della nostra chiacchierata ironizzavi sull’essere donna e, per di più, dell’Isola delle Femmine e, dunque, quasi inevitabile che l’ambito femminile fosse ben presente nella tua ricerca artistica. In concreto, quanto e come l’universo femminile entra nei tuoi lavori?
L’universo femminile imprescindibilmente è costantemente evocato nel mio lavoro, ma più che universo femminile direi “la causa” femminile. La storia che racconto ha origine nella mia, frutto della somma delle storie della mia famiglia: sarei dovuta nascere maschio, secondo il parere dei medici, ed invece sono nata femmina. Ed è stato urlato a gran voce dalla mia nonna materna – colei che mi iniziò al mondo tessile – quando nacqui: una vera e propria dichiarazione di uno status che stordì gli astanti e che riecheggia in me sempre con grande potenza.
“Io sono un’artista a cui è capitato nascere donna” diceva la scultrice Louise Nevelson e la sua disarmante affermazione mi conduce a fare spesso i conti con la verità di tale asserzione.
L’essere femmina è da sempre uno stigma per le donne, e non mi riferisco alla mia storia personale o a quella delle donne del sud Italia, ma alle donne di ogni tribù o popolo del mondo. È di questo stigma che voglio raccontare.
Per quanto riguarda il nome del mio paese, Isola delle Femmine, anche lì c’è una causa femminile che ho sposato: tutto farebbe pensare a un elogio alle donne dell’isola, invece il nome che porta celebra una storia di abusi e soprusi fatti alle donne: infatti la leggenda narra di un carcere femminile posto sulla torre dell’isolotto in cui venivano rinchiuse le “femmine”. Negli anni ho cominciato a dare un valore universale alle storie personali, appellandomi alla memoria ancestrale e alle immagini archetipiche che la tessitura evoca, di modo che ogni donna o uomo potesse riconoscersi o sentirsi parte di questo grande racconto.
COSMO (part), 2016, lenza e lana, dimensioni variabili, ph.credit Grazia Inserillo
Impieghi diverse fibre per le tue opere ma tra tutte la lana sembra essere quella che prediligi. C’è una ragione simbolica oppure è solamente una scelta tecnica?
Tecnicamente, la lana mi permette di costruire grandi istallazioni tessili dove la predominanza materica emerge con grande potenza. La qualità tattile della lana, a partire dallo spessore del filo grossolano, ruvido e grezzo, mi permette di avere una superficie dinamica e vibrante, proprio come nella scultura, in cui il contrasto tra pieni e vuoti, tra luci ed ombre è determinante per la lettura dell’opera tessile.
Ma, chiaramente, l’uso della lana non è solo un’esigenza tecnica: la qualità di questa fibra è quella di mantenere la temperatura corporea costante (come succede ai Tuaregh del deserto del Sahara che vestono esclusivamente di lana grezza per isolare il loro corpo dalla temperatura esterna).
Pertanto il valore simbolico che conferisco a questo materiale è senza dubbio quello di preservare, custodire, racchiudere, avvolgere, riscaldare e trattenere: queste qualità simboliche, nonché tecniche, specifiche della lana, sono le stesse qualità della donna/madre nell’atto di prendersi cura dei propri affetti e del proprio focolare domestico.
Lo spettatore viene così accolto da un’opera “materna”, in quanto è lo stesso materiale che ne suggerisce e ne determina il contesto di conforto entro cui è inserito.
Il rosso. Un colore primario, sovente associato al sangue, alla passione, al martirio, al sacrificio. E ‘sacrificio’ è anche un termine che ricorrente nei tuoi discorsi. Qual è, se c’è, il nesso tra questo colore che scegli per molti tuoi lavori e l’esperienza sacrificale a cui spesso fai riferimento?
Rosso come sacrificio e martirio, ma anche come viscere. È un colore che al tempo stesso indica una perdita, come quando si compie un sacrificio, ma racchiude in sé anche una rinascita, poiché è il colore della vita, se pensiamo ad esempio al parto. E la vita – dare la vita – passa attraverso il sacrificio: perdi qualcosa per acquisirne un’altra. E il tutto avviene dal di dentro, dalle viscere dunque. Il rosso è il colore simbolo delle donne, che porta con sé lo stigma di tale esistenza: la donna che si sacrifica continuamente per donare, la donna che necessariamente lascia morire qualcosa per dar vita ad altro in un ciclo continuo.
Raccontando una storia universale ed ancestrale delle donne attraverso l’arte tessile, non posso che attingere dalla memoria della mia storia personale e, intrecciandola con la storia del mondo, approdo al rosso, che diventa veicolo di salvezza, per necessità.
Le tue installazioni trasformano il ‘centrino’ – etichettato tradizionalmente come ‘lavoretto’ artigianale, casalingo, hobbistico, e in tempi più recenti anche ‘datato’ – in grandi elaborati tessili. Volumi che occupano uno spazio fisico importante, che trasformano oggetti invisibili in macro opere d’arte, l’elemento trascurabile che diventa protagonista della scena: è il riscatto di chi non ha (o non ha avuto) voce?
Indubbiamente c’è la volontà di “presentificare” il silenzio. Un silenzio lungo secoli. Un lavoro, il centrino, fatto a testa bassa: con riverenza e accondiscendenza – forse anche con obbedienza – le donne lo realizzano nel tacito silenzio delle mura domestiche.
I miei arazzi sospesi in aria, visioni macroscopiche di “centrini”, fanno invece alzare la testa. Non occupano solo lo spazio, lo determinano in quanto sculture soffici e materiche, volutamente sovradimensionate, sono manifestazioni palpabili e vessilli di un lavoro che merita rispetto: in ogni nodo, in ogni punto dell’uncinetto, vi è tutta la pazienza e la premura tipica delle donne/madri che col loro annodare tentano di ricucire i rapporti e le dinamiche familiari che si sfaldano, nel tentativo di “abbellire” una vita domestica che appare come il centrino decorativo, posto sempre sotto gli oggetti di valore e mai considerato di per sé un oggetto di valore.
Il “centrino” è a tutti gli effetti il simbolo della devozione delle donne, le quali hanno il compito (ruolo socialmente imposto) e il dono (naturale in quanto madri) di ricucire le ferite altrui a discapito della propria emotività e a salvaguardia delle apparenze.
Non è solo per diletto che si ricama, dunque.
Cosa evoca la forma tonda di molte tue opere/installazioni?
Il cerchio è considerato antropologicamente il simbolo del femminino ancestrale. È una forma chiusa e finita che però racchiude in sé il germe di infinite forme, come un utero che genera vita: un’unica linea morbida e indubbiamente materna, capace di racchiudere al suo interno la morte e la vita di un’immagine, in un moto circolare infinito, perpetuo. Il cerchio è simbolo dunque dello scorrere del tempo, come può essere il ciclo delle stagioni o, in generale, il tempo della storia e dunque il tempo della memoria. Ed in nome di questa memoria che, nel mio lavoro, la forma circolare rievoca il telaio, luogo in cui prende vita il ricamo. Il cerchio così si fa anche luogo: è una forma che si distingue immediatamente dalle altre, ha una sua presenza e un suo peso specifico nella composizione di una immagine, e spesso diventa un punto di riferimento all’interno di essa; il luogo, appunto, in cui lo sguardo puntualmente approda.
Nell’era della tecnologia, videoarte e della performance, cosa spinge, secondo te, molti giovan* artist* a scegliere un medium come il filo e tecniche antiche come la tessitura o l’uncinetto?
Forse la volontà di restituire allo spettatore una partecipazione ed un’esperienza dell’opera artistica basata sulla qualità tattile e materica. La tecnologia, la performance o la videoarte su questo aspetto temo abbiano un limite in quanto filtrano l’esperienza artistica dello spettatore, il quale fruisce in maniera più passiva l’opera (nel senso di meno partecipata).
Il “calore” delle opere tessili, la sensibilità tattile e la matericità delle stesse, fanno sì che lo spettatore sia messo nelle condizioni di partecipare in maniera attiva al discorso artistico: il contatto (con-tatto) che egli stabilisce con l’opera tessile è di primo grado, ossia non filtrato da altri medium come lo schermo o un corpo narrante (come può accadere nella performance).
L’opera si fa interrogare dallo spettatore attraverso l’esperienza tattile delle pieghe della sua superficie, dei suoi colori materici, della sua texture: sono due storie a confronto, quella dell’opera e quella del fruitore, e quasi sempre lo spettatore trova corrispondenza e somiglianza con l’opera tessile, entrando in una relazione intima con l’opera tessile, in cui viene accolto in maniera materna, a partire dal materiale con cui essa è realizzata.
Inoltre si assiste ormai da qualche anno a quel ritorno del “saper fare” e del “fatto con le mani” che coincide con la riscoperta della Fiber Art: il pubblico, di fronte ad un’opera d’arte tessile, diventa parte di quelle memorie ancestrali e figure archetipiche universali suscitate dal tatto, tipiche delle opere fiber.