IN DIVENIRE. Daniela Frongia, Arte e Contemporaneità.
Il percorso d’artista di Daniela Frongia si configura come atto sperimentale e in continua evoluzione: dialoga con sé stessa e con il mondo che la circonda attraverso le performance, indaga il presente e la cultura odierna con la fotografia e i video, si esprime attraverso la pittura, le installazioni e la tessitura. I suoi pensieri sono come grovigli di fili che si manifestano nel reale attraverso i lenti e ritmici gesti che accompagnano il concepimento del lavoro al telaio. Vive questo atto come un’urgenza che le consente di rendere fruibile, palpabile e condivisibile il suo mondo interiore. Percepisce, pensa, respira e si nutre d’arte. “La contemporaneità è la nostra esistenza in divenire – dice – il confronto attiva le possibilità di interrogarsi, spinge all’interno e all’intorno, definisce nuove visioni e sensazioni.” Guarda e poi vede; e nell’osservazione profonda, spesso empatica, prende atto della vulnerabilità dell’esistenza. Il suo fare è come un ago che nel cucire, entra ed esce, instaura rapporti e fissa momenti, ricordi, emozioni che ricama nel suo animo per dar forma a ciò che resta.
Sarda di nascita, hai studiato e lavorato a lungo a Firenze. Quanto è stata importante l’esperienza fiorentina per la tua ricerca artistica?
L’esperienza fiorentina è stata fondamentale per sviluppare una conoscenza approfondita sul concetto di ‘contemporaneo’ e ampliare le mie vedute. Ho avuto modo di relazionarmi con esperti del settore, lavorare a stretto contatto con artisti professionisti e giovani artisti come me, soprattutto attraverso workshop, residenze e mostre.
Son trascorsi ormai diciassette anni da allora e il ricordo è sempre vivo e attuale.
“PAESAGGI TESSILI 4”, installation site specific, land art, fili di cotone tessuti su parete di arenaria e rocce, Spiaggia di Portu Maga, giugno 2020, ph.credit Daniela Frongia
E poi sei tornata in Sardegna e dal tuo ritorno hai scelto il filo come medium espressivo: c’è un nesso fra questi due cambiamenti nella tua vita personale e professionale?
Son tornata in Sardegna nel 2012, una vita molto diversa da quella toscana. Ritmi calmi in ampi spazi.
Ho avuto la necessità di rallentare, di interiorizzare, trasformare e condividere l’esperienza vissuta.
I medium espressivi utilizzati sono sempre stati la fotografia, i video, la pittura, l’installazione e la performance. È stato urgente creare un legame tra il passato, il presente e il futuro: il filo.
A – “Non c’è Jana senza fili”, libro d’artista interamente realizzato a mano, anno 2015, ph.credit Daniela Frongia
B – Il primo fuso e il primo filo di lana, anno 2014, ph.credit Daniela Frongia
La Sardegna ha una lunga tradizione di tessitura, radicata nella sua storia e nella sua cultura: dalle leggendarie Janas che tessevano con il telaio d’oro, ai tappeti, fino all’arte di Maria Lai. Quanto del tuo lavoro è figlio di questa terra?
La cultura sarda del filo è ricca, affascinante e, come dici tu, molto radicata. Per questo bisogna avvicinarsi all’argomento in punta di piedi, con rispetto e studio approfondito del passato.
La mia sperimentazione con le fibre ha inizio intorno al 2014-2015 quando, trovandomi ancora senza gli strumenti per poter finanziare la mia ricerca, ho deciso di creare i fili da me partendo dai racconti, dalla tradizione, dalla mia terra.
Durante una delle mie solite passeggiate dedite alla fotografia ho trovato della lana tosata e abbandonata in un campo, era poca e sporca, ho così deciso di prenderla e di trasformarla in filo. Non l’avevo mai fatto prima e la mia curiosità era immensa. Non avevo gli strumenti per lavorarla, non sapevo come lavarla. Cercavo e studiavo informazioni, ho costruito un fuso in legno e dei pettini, entrambi molto brutti e rustici. Il primo filo era informe, rigido e indelicato.
Conservo ancora tutto nel mio studio, come conquista di un tesoro prezioso: la conoscenza.
Può sembrare banale in un’epoca come la nostra, dettata dal consumismo sfrenato e spesso di povero valore industriale. La velocità sta letteralmente uccidendo la voglia di saper fare da sé per lasciare posto all’avidità del possesso. È questo che mi insegna il ritorno nella mia terra, ad apprezzare la lentezza, il ritmo e soprattutto il percorso che porta alla contemporaneità in divenire.
“ININTERROTTI TRANSITI”, installation site specific, fili di cotone tessuti nello spazio, Ex Casa al mare Francesco Sartori, luglio 2020, ph.credit Daniela Frongia
Le tue installazioni di filo sono lavori molto estesi e complessi. Penso, ad esempio, all’opera realizzata all’Ex Colonia Sartori oppure ai ‘Paesaggi Tessili’ che coinvolgono scogli, insenature, caverne, spiagge. Che rapporto hai con questi luoghi, come li scegli e, soprattutto, come si relazionano le tue opere con l’ambiente in cui si sviluppano? Quali messaggi veicolano? E sono opere temporanee o destinate a rimanere?
Ho percorso praticamente tutta la Sardegna con i miei genitori, soprattutto in estate, quando ero ancora una bambina.
Dai sedici anni in poi l’esigenza d’indipendenza è stata più forte, così ho iniziato a lavorare come cameriera di sala durante le stagioni estive, in ristoranti e alberghi; dapprima in Sardegna e poi in Italia.
Questo fare mi ha accompagnato dal 1997 al 2011, anche in settori differenti e non più stagionali, aiutandomi a finanziare i miei studi e la mia ricerca, penalizzando al contempo i viaggi di piacere o le classiche vacanze al mare con gli amici.
Rientrare in Sardegna è stata una riscoperta dei luoghi vissuti durante la mia infanzia e di luoghi nuovi, soprattutto abbandonati, individuati per la ricerca fotografica nei vari periodi dell’anno. È una sorta di mappatura che mi dà modo di ragionare e sviluppare nuovi progetti per poi proporli ed eventualmente concretizzarli nella stagione più idonea. Perlopiù queste opere sono dei racconti vivi ed effimeri.
L’Ex Casa al Mare Francesco Sartori, costruita nei primi anni cinquanta, è un luogo d’affezione per me, per i miei genitori, per i miei nonni e per tante altre persone in Sardegna. Era la colonia dedicata alle vacanze dei figli dei minatori, un “premio” per le fatiche compiute nel buio delle gallerie tra Ingurtosu e Montevecchio.
Nonostante sia ormai un rudere le visite alla struttura non sono mai cessate negli anni.
Ho pensato di sviluppare un progetto nel porticato che si affaccia al mare, una sorta di galleria di fili che vanno dal bianco al grigio e poi al nero ed è interamente percorribile con qualche difficoltà. Bisogna abbassarsi, curvare la schiena, saltare qualche filo oppure affacciarsi da qualche buco.
Chiunque passi di lì ha un racconto da offrire rispetto al passato, al ricordo, al vissuto o al presente; questi diventano intrecci e legami, nuovi percorsi luminosi e fragili. Ma il buio c’è stato, per tutte le vite perse nel duro lavoro delle miniere. In questo caso il mio vuole essere un racconto intrecciato con il passato e sviluppato in chiave contemporanea.
Il filo non è più l’orbace di sopravvivenza del pastore, il corredo di famiglia o l’arazzo. Per me diventano telai i luoghi stessi, la tessitura si disfa di trama e ordito e il finito si adatta all’ambiente divenendo un’opera fuori dal luogo deputato all’arte, fruibile dall’uomo, dagli animali, dagli insetti e assorbita e consumata dagli eventi naturali. Per questo utilizzo prevalentemente fili di lana sarda o fili di cotone.
Penso che l’arte e la cultura debbano essere alla portata di tutti, anche di chi non va propriamente a cercarla ma ci si imbatte, stupendosi e/o interrogandosi, anche all’interno di una struttura abbandonata e decadente come l’Ex Colonia.
Vorrei raccontare un aneddoto che trovo molto significativo. Di recente mi trovavo al mare con un amico che si porta sempre appresso delle terre naturali di differenti colorazioni; mentre eravamo in spiaggia abbiamo trovato residui di carbone. Abbiamo deciso di dipingere e disegnare due piccole pietre e di lasciarle appoggiate sulle scanalature di una parete in arenaria. Da quel giorno chiunque passi da questa spiaggia lascia a sua volta una pietra decorata con il carbone, oppure legni e canne intrecciate ripetendo il gesto di adagiarle alla stessa maniera. Al momento si possono contare una quarantina di interventi e la parete si è trasformata in una vera e propria esposizione in divenire. Il fatto curioso e che suscita il mio interesse è che in quel tratto di spiaggia non ci sono pietre disponibili nell’immediato, bisogna andare a cercarle: ecco l’importanza del percorso prima della sosta.
Alcune opere sono permanenti, come Ininterrotti transiti di Funtanazza, altre temporanee, come per Paesaggi tessili. Queste ultime vivono il tempo di creazione, le monitoro per qualche tempo dopodiché le rimuovo. Appartengono a un progetto più ampio dove ciò che è stato non può tornare a essere, ma può esistere sotto una forma diversa, in un ambiente diverso e sono legate a un processo in divenire.
I messaggi che veicolano sono molteplici, tanti quante le persone che fruendone si interrogano.
La funzione estetica dell’installazione è dettata esclusivamente dal risultato architettonico finale, come disegno o progetto di movimenti continui e ripetuti; le onde che scolpiscono la roccia consumandola, la sabbia che sfrega continuamente su se stessa, il vento che muove i fili o la salsedine che ne apporta rigidità essiccandoli al sole. I vuoti e i pieni rappresentano un altro aspetto essenziale della mia ricerca; contenuti e contenitori necessari alla sopravivenza delle emozioni tradotte in esperienze tattili.
“PAESAGGI TESSILI #5”, installation site specific, land art, fili di cotone tessuti nella roccia, Caletta Is Cannizonis, Marina di Arbus, giugno 2020, ph.credit Daniela Frongia
Per realizzare installazioni di queste dimensioni, soprattutto in ambienti naturali, occorre tener conto di numerosi fattori, sia nella fase di realizzazione che successivamente per la permanenza dell’opera. Procedi a partire dal luogo oppure da un’idea e poi trovi il sito adatto per svilupparla? Strutturi un progetto dettagliato in partenza oppure lavori su una bozza generale e ti lasci guidare dall’evoluzione dell’opera?
È vero, sono numerosi i fattori di cui bisogna tener conto per installazioni di Land Art realizzate attraverso i fili. Investo molto tempo nei sopralluoghi portandomi sempre qualche gomitolo dietro; osservo tutto con gli occhi e con le mani. Ogni fessura, sporgenza, appiglio, superficie, ampiezza. Da questo riesco a percepire un “disegno” e a creare un progetto.
Negli ambienti naturali, durante il lavoro, niente deve essere modificato, spostato o rimosso. È l’opera che deve adattarsi non il contrario; deve coesistere senza mutare lo scenario ospitante. Nessun chiodo, solo appigli naturali o già presenti.
L’osservazione è davvero fondamentale, soprattutto se si tratta di spiagge o parchi, chi è solito recarsi in un luogo lo attraversa con abitudine in punti specifici e quasi delineati. Bisogna rispettarli sviluppando il progetto di conseguenza.
Procedo in entrambi i modi, a volte partendo da un luogo altre partendo da un’idea che porta alla ricerca del luogo adatto. Ciò che per me ha moltissimo valore è la possibilità di poter interpretare in chiave contemporanea il sito in cui mi trovo a operare, non per stravolgerlo, piuttosto per attivare una simbiosi. Un esempio significativo è per me il lavoro realizzato a Teulada nel 2019 per il Bisus Street Fest. In questa circostanza ho creato un’opera di Street Art in uno dei muri più antichi nel centro del paese. Teulada è un nome importante e delicato per la realtà sarda in quanto intorno agli anni ’50 vengono espropriati 7.500 ettari di costa per cederli alla base militare NATO. Questa è purtroppo tutt’oggi all’attivo.
“Ripetizione Materica #2”, installation site specific, fili di lana sarda tessuti e cuciti su muro, Street Art-Urban Art, Bisus Street Fest, Teulada 2020, ph.credit Daniela Frongia
Il progetto dedicato al paese si intitola Ripetizione materica #2, e vuole far emergere, in maniera molto delicata e sottile, come il continuo susseguirsi di esercitazioni belliche modifichi la salute dell’ambiente e dei suoi abitanti. Attraverso l’uso di fili di lana sarda naturale, cuciti ripetutamente sulla parete di pietra, si creano dei volumi materici concreti e visibili che si dilatano alla maniera di un ricamo, volto a delineare concettualmente l’immutata attività della zona “Alfa” e il derivante accumulo di materiale tossico. Al contempo vuole sottolineare l’altrettanta bellezza del binomio mare-montagna della costa del sud.
Tendo a porre l’accento sull’importanza generale di tutte le azioni umane costanti e deleterie che, se palesate materialmente nell’immediato, potrebbero apportare un contributo necessario atto a denunciare la distruzione che stiamo attuando in favore del paradosso progresso-regresso.
Bisus Street Fest è stata una residenza d’artista di quattro giorni e durante la notte, mentre stavo in terrazza con gli altri artisti partecipanti a contemplare la bellezza delle stelle, si faceva forte e vivo il contrasto sonoro delle sparatorie e delle esplosioni dietro le montagne. Bisus tradotto dal sardo significa “sogni”.
Come per l’opera appena citata gran parte dei progetti nascono e si sviluppano in studio, e spesso occorrono mesi di lavoro prima di essere installati sul luogo prescelto.
“L’incontro”, work in progress dell’installazione attraverso due tele ricamate e tessute. Quarantine diary in the study, aprile/maggio 2020, ph.credit Daniela Frongia
Nel corso del lockdown hai lavorato a una serie di piccole opere, una sorta di diario della quarantena. Mi racconti di che si tratta?
La quarantena è stata un percorso molto forte, presumo per molti, un periodo in cui ho realizzato diverse opere in momenti altrettanto diversi. La prima parte del lockdown l’ho vissuta fuori dal mio studio subito dopo il mio rientro in Sardegna da Amsterdam avvenuto l’11 di marzo. Questo momento è stato particolarmente forte, ero lontano dal mio spazio, dai miei strumenti e dai miei affetti. Avevo comunque con me alcuni aghi e parte di filati con cui sono riuscita a creare una piccola installazione mobile: Quarantine; una tela di grandi dimensioni, Mutazioni; e un progetto fotografico cucito suddiviso in tre parti: Estetica dell’impotenza – silenzio, Estetica dell’urlo – cibo, Estetica della rassegnazione – attesa.
Ho avuto la fortuna di avere una stampante e di poter recuperare materiali come un vecchio lenzuolo bianco che è diventato la base della tela, e listelli di legno con cui ho realizzato il telaio senza non poche difficoltà e con l’aiuto di amici con cui mi trovavo.
Ad aprile son riuscita a rientrare nel mio studio, era da febbraio che non tornavo, è stato intenso; un grande caos nel silenzio e nella solitudine.
Ho realizzato altre tredici opere che racchiudono alti e bassi, vuoti e pieni. Momenti luminosi e momenti bui.
Soli, Dentro le stanze, attraversando Movimenti del vuoto, e osservando dalle Finestre. Tra Parole, suoni e silenzi e Percorsi introspettivi. Quasi Microrganismi tattili spesso come Spine. Siamo chiusi nelle nostre Pareti intime, piccole Architetture d’aria, in attesa di essere rimessi al mondo – Uterus.
C’è stata poi la fase due, che ha visto la nascita di un’installazione attraverso due tele: L’incontro e l’ultimo progetto fotografico cucito – Altrove.
Questi lavori sono il mio diario di quarantena; nelle forme, nei contenuti e nei titoli si traducono gran parte delle mie emozioni vissute.
A – “Mutazioni”, fili di cotone tessuti su lenzuolo di cotone, cm.130×90. Quarantine diary in the study, marzo/aprile 2020, ph.credit Daniela Frongia
B – “Undici piccole tele”. Quarantine diary in the study, aprile 2020, ph.credit Daniela Frongia
Fotografia, scrittura e stampa sono altre tecniche che affianchi al tuo lavoro con il filo. Che ruolo hanno e come interagiscono con le tue opere di fiber art?
Fotografia, scrittura, performance e video sono strumenti con cui sperimento fin dagli anni accademici e ai quali affianco la fiber art.
La scrittura è diventata nel tempo una tessitura di parole. Come sul telaio avviene che trama e ordito perfettamente intrecciati non si distinguano più diventando un elemento unico – il tessuto – così avviene con le parole. Il significato e il significante scompaiono con la sovrascrittura, che altro non è che scrivere parole e pensieri gli uni sugli altri e sulla stessa porzione di superficie. Divenendo così forma, macchia, volume: tessuto. Scompare il senso lasciando posto all’immaginazione visiva e tattile; quest’ultima data da qualche filo, filato a mano e cucito, spesso anche fuori campo.
La fotografia e i video, di frequente, sono delle restituzioni performative dove il filo è elemento presente nell’atto stesso oppure inserito a posteriori come legame aggiunto all’atto precedente.
A – “Sul filo del pensiero”, autobiografia, foglio di lino autoprodotto, capelli tessuti, ph.credit Daniela Frongia
B – “Sul filo del pensiero”, tessitura di parole, fili di lana sarda autoprodotti e cuciti su foglio di canapa, anno 2017, ph.credit Daniela Frongia
A proposito di filo, usi diversi tipi di materiale: cotone e lana sarda industriali per le grandi installazioni e le fibre più disparate per le opere di piccole dimensioni. So che alcune le coltivi tu stessa e ne curi tutto il processo produttivo sin dal seme. Immagino, quindi, che i materiali che scegli abbiano un significato per te e che il filo abbia anche un valore simbolico oltre a quello funzionale. È corretto?
Quando vivevo a Firenze sperimentavo sporadicamente con i soli fili industriali e ho iniziato a conservare i miei capelli.
Rientrata in Sardegna non avevo fili adatti e a sufficienza per poter sperimentare ciò che volevo tradurre in quel momento.
Ho iniziato a coltivare il lino e il cotone nel 2015. Ho costruito manualmente tutti gli strumenti per poter lavorare le fibre studiando l’intero processo meticolosamente, soprattutto attraverso i racconti degli antichi. Dopo più di un anno di lavoro – dalla coltivazione, alla raccolta e alla lavorazione – sono riuscita a realizzare i miei primi lavori partendo da zero. È stato molto faticoso ma altrettanto gratificante. Mi ha dato modo di comprendere l’importanza di tenere tra le mani un filo, di concepire la preziosità dei filati manuali che assorbono il vissuto in quantitativo di tempo di realizzazione, a ponderare le scelte nell’utilizzo e portando all’azzeramento di qualunque spreco; recupero le fibre vegetali di scarto – quelle troppo corte – per trasformarle in fogli.
I miei primi libri d’artista raccontano l’esperienza stessa della creazione dell’opera dal seme al prodotto finito. Il libro della lana, il libro del lino e i vari telai; dell’orbace e del cotone. Senza dimenticare il libro dello zafferano, spezia coltivata nel mio paese e utilizzata anche per la colorazione di tessuti. Con questo libro ho scoperto le tarme. Piccoli lepidotteri che si nutrono di fibre contenenti cheratina; lana, seta, capelli e raramente anche il cotone. Il mio libro è stato divorato nell’arco di qualche mese costringendomi ad attuare un lungo processo di disinfestazione a protezione di tutto il mio operato. Ne conservo i resti come ulteriore intervento attuato da terzi; è una sorta di bozza per progetti futuri dove la consumazione potrebbe portare a risultati molto interessanti, parzialmente casuali e fino alla loro totale scomparsa.
Ho iniziato in questi anni ad usare anche i miei capelli per ricamare parole su fogli di lana tessuti a mano e a realizzare le prime porzioni di tessuto interamente fatte con i miei capelli – ordito e trama di capelli vengono tessuti al telaio verticale ricavato su tela di cotone; riesco a realizzarne una o due all’anno ed è un lavoro particolarmente lento e introspettivo, sono opere autobiografiche, il mio DNA.
Per diversi anni ho lavorato solo con i filati che riuscivo a produrre, questa metodologia aveva rallentato il mio tempo, dilatato visioni e ampliato la voglia di sperimentare. Le idee diventavano sempre più veloci rispetto a ciò che riuscivo a concretizzare, le trascrivevo su quaderni per non dimenticarle e poterle costruirle mentalmente. Ho iniziato a poco a poco a far diventare i progetti sempre più grandi e i soli filati autoprodotti non riuscivano più a soddisfare e a tradurre adeguatamente le mie esigenze e urgenze. Mi regalarono sacchi di fili di scarto derivanti dai telai di un’azienda sarda. Ricordo che li avevo sparpagliati su tutta la superficie del mio studio; è stato un delirio! Avevo deciso di ricostruirli, sgrovigliandoli per tipologia, colore e materiale per poi riannodarli uno per uno e ricreare un unico filo. Ricavai più di 50 enormi gomitoli differenti, ed è proprio con questi che ho iniziato a dar vita alle mie prime installazioni in site specific.
È importantissima la scelta del filo, perché è il tramite con cui posso o non posso riuscire a esprimere un’urgenza nel qui e ora, o il senso dell’opera stessa. Dal tipo di filo e dalla sua torcitura dipende la durata di un’opera, soprattutto in site specific; per esempio le fibre di lana resistono di più all’aperto che al chiuso, alla luce piuttosto che al buio. Alcune sono più effimere di altre e si degradano più facilmente, altre si possono conservare all’infinito, come la canapa o il lino.
“Autobiografia #blu”, particolare del work in progress e lavoro ultimato, capelli d’artista tessuti e cuciti su tela, cm. 60×30, 2018, ph.credit Daniela Frongia
Quali sono le esperienze formative o artistiche che hanno più influenzato il tuo lavoro? Quali sono – o sono state – le maggiori fonti di ispirazione?
Questa è una domanda su cui potrei stare per ore, non sono una chiacchierona, mi definisco piuttosto un’ascoltatrice; ma so che certe cose bisogna dirle e dirle bene.
Son stata selezionata per il mio primo workshop a Prato, in Toscana, nel 2008; un progetto curato dall’artista Robert Pettena. Stava allestendo la sua mostra personale Second Escape curata da Pier Luigi Tazzi. Noi giovani artisti gli davamo una mano a tirar su l’installazione The jungle bar realizzata con rami legati gli uni agli altri, dalla base più larga poggiata a terra fino alle punte che si alzavano al cielo; a questa operazione venivano unite delle basi in legno a mo’ di piano su cui poggiavano sacchetti di juta cuciti a mano contenenti frutta, agrumi e ortaggi con cui venivano fatti centrifugati e spremute cocktail. È stato significativo, l’opera funzionava se qualcuno la consumava, era una sorta di performance collettiva; tutta la mostra e il percorso mi segnarono moltissimo. Ho iniziato in questo periodo a realizzare video d’arte. Venne poi sviluppata la mostra finale dei partecipanti in uno spazio della Galleria Dryphoto Arte Contemporanea.
A seguire gli incontri con Lorenzo Bruni, curatore del workshop e poi della mostra collettiva Manuale per autostoppisti dell’arte, con cui ho iniziato a sperimentare le prime installazioni, con la scrittura, la fotografia, la carta, le parole, le performance con la farina, e le strutture di ferro e vetro. Era il 2009, anno in cui ho conosciuto anche Cesare Pietroiusti e Rossella Biscotti.
Selezionata successivamente per il progetto Networking, nato nel 2000 come tentativo da parte di enti territoriali diversi di costruire una rete regionale finalizzata alla promozione dei giovani artisti operanti in Toscana. Back to the present, è stata l’edizione a cura di Elisa Del Prete a cui ho preso parte tra il 2008 e il 2009 per il workshop di John Duncan e Melissa Pasut.
È stata un’esperienza particolarmente significativa volta a ri-attivare la consapevolezza del presente, con la volontà di porre al centro della riflessione artistica il proprio sentire come punto di partenza di ogni fare e il proprio corpo come strumento primario della conoscenza, depositario delle memorie di tutte le esperienze, di tutti i pensieri, di tutti i sentimenti. Suono, dialogo, esercizio e contact improvvisation credo influenzino da allora tutto il mio percorso artistico.
Cesare Pietroiusti, artista tutor del mio ultimo workshop in Toscana, Territori flessibili, tra il 2010 e il 2011 presso il Centro per l’Arte Contemporanea Ex3 di Firenze. È in questa circostanza che ho elaborato il mio primo libro d’artista con pensieri scritti con il mio sangue mestruale su carta comune e cancellando successivamente i pensieri con del filo nero cucito sui fogli; una serie di autoscatti inseriti all’intero. L’opera si intitola aScoltare ermeticAmeNte il tepore. Preservare l’alGido trascorso. giUngere altrovE. Un’opera che ho portato nel mio piccolo paese, a San Gavino Monreale, durante una performance per la mia personale nel 2013.
Cesare è l’artista su cui ho scritto e discusso la mia tesi di laurea nel 2012 e che al workshop disse a noi giovani artisti partecipanti: “cercate su internet qualsiasi idea vi venga in mente per una vostra futura opera, scoprirete che qualcuno l’ha realizzata prima di voi”.
In Sardegna le mie sperimentazioni mi fanno avvicinare ed approfondire la conoscenza con persone che sono diventate importanti per la mia ricerca attuale, amici e colleghi, luoghi e musei che hanno accompagnato il mio fare, stimolato il mio lavoro e che tuttora continuano ad abbracciare le mie idee e il mio percorso.
Ricordo la primissima residenza in Sardegna, a casa dell’artista Fabrizio D’Aprà nel settembre del 2015, eravamo un gruppo di amici artisti e per l’occasione avevamo sperimentato materiali autoctoni come il lino. Ci furono diversi incontri, laboratori, seminari, conferenze e una giovane ed elegante Anna Rita Punzo che mi fece innamorare del “Dio Lino”. Da lì in poi il rapporto si è trasformato in un legame professionale forte e duraturo, devo a lei la mia prima importante personale in Sardegna; Perfiloepersegno, presso il Centro Giovanni Lilliu di Barumini nel 2016 e a seguire la personale INTRECCI LIBERI, presso il Museo MURATS di Samugheo nel 2017. È una delle migliori conoscitrici del mio lavoro, stimolatrice d’arte e fonte di innumerevoli ispirazioni, con la quale ho condiviso e condivido numerosi progetti collettivi come la recentissima Prima Biennale della Fiber Art della Sardegna.
Sempre nel 2016, ho avuto modo di conoscere un’altra importante figura legata al Contemporaneo Cagliaritano, Daniele Gregorini. Dapprima attraverso la grande famiglia dell’associazione Urban Center di Cagliari, all’interno degli spazi Artaruga, hOMe Network e Galleria del sale. Luoghi in cui ho avuto la possibilità di entrare in contatto diretto con numerosi artisti, con i quali ho approfondito rapporti, sviluppato progetti e condiviso mostre ed eventi. In questo stesso periodo ho iniziato a sperimentare lavori di Street Art, Urban Art e Arte Pubblica.
Daniele è una persona estremamente curiosa e al contempo ha la capacità di iniettare altrettante dosi di curiosità per innescare continui dialoghi e confronti. Siamo stati compagni di lavoro e sperimentazione per diversi anni, riuscendo nell’intento di far dialogare la sua pittura con i miei fili. Abbiamo preso parte in parallelo a diversi festival e residenze. Numerosi i progetti a sua idea e cura in cui son stata invitata a partecipare dandomi occasione di sperimentare opere significative come l’ultima realizzata ad Amsterdam, agli inizi di marzo, per una delle residenze d’artista appartenenti al progetto Continente Creativo; e prima ancora, curando uno dei miei maggiori progetti personali, l’installazione mobile Thῡmόs, allestita presso il T Hotel di Cagliari a febbraio di quest’anno. Influenza, stima, rispetto e amicizia ci accompagnano ormai da anni.
Sono davvero infinite le esperienze che alla soglia dei quarant’anni hanno influenzato e influenzano ancora il mio percorso, nominarle tutte è complesso. Credo comunque che il confronto con le diverse realtà che ci circondano – umana, animale, vegetale, naturale ed artificiale – siano lo stimolo migliore per continuare a sviluppare una ricerca viva e mai fine a sé stessa.
“Thumos”, installation site specific, febbraio 2020, ph.credit Daniela Frongia
Il tuo ultimo lavoro in ordine di tempo è l’installazione site specific per il festival di Teatri di Vita a Bologna. Mi racconti l’opera che hai realizzato?
Era maggio, si era appena usciti dal lockdown e mi arriva una bella telefonata per propormi di prendere parte al progetto Cuore d’Italia. L’estate appesa a un filo.
Non potevo partire per un sopralluogo, mi è stato raccontato il progetto e descritto lo spazio intorno al teatro, anche attraverso delle fotografie.
È un parco molto frequentato, con degli alberi bellissimi e secolari, le persone lo percorrono abitualmente per tanti motivi; sport, svago, per recarsi a teatro o per andare al lavoro.
Ho immaginato un piccolo percorso alternativo alla routine, il suono insistente delle cicale mi riportava continuamente alla Colonia di Funtanazza, ho deciso di proseguire la stessa sperimentazione architettonica con forme circolari dalle quali affacciarsi e pareti da percorrere.
L’opera si intitola Ininterrotti transiti #2.
Le persone si sedevano sulla panchina che poi ho inserito nell’installazione, mi raccontavano e si raccontavano. Alcune sono venute a trovarmi tutti i giorni, con diverse ho scambiato anche i contatti per risentirci, altri mi dicevano perché non fai così? Perché non crei questo? Sarebbe bello per noi! L’ascolto è scambio.
Tutte queste storie, questi transiti continui, questo scoprire e chiedere, sono diventati intrecci, sono la struttura portante.
Ci sono racconti invisibili contenuti nei vuoti e poi ci sono legami visibili che sono concreti e reali. E gli spettacoli, le conferenze, i film e i live serali del Teatro, ulteriori realtà sulle quali affacciarsi per vedere oltre.
“ININTERROTTI TRANSITI #2”, installation site specific, Parco dei pini, Teatri di Vita, agosto 2020, ph.credit Daniela Frongia
Progetti futuri e sogni nel cassetto: a cosa stai lavorando e a cosa vorresti poter lavorare in futuro?
Ho diversi progetti a cui sto lavorando, soprattutto in studio, molti inediti e proprio per questo non posso dire molto di più; i programmi sono in continua evoluzione anche per via della pandemia.
Sto lavorando principalmente su opere installative e a una mostra personale, ci vorrà ancora un po’ di tempo e di lavoro. Per il futuro ho tante idee e anche in questo son piuttosto riservata, ben sperare e impegnarsi è positivo e credo che ogni cosa arrivi quando è il momento giusto.
“Shades”, installation site specific, Street Art. URban Art. Speeltium Square, Nieuw West, Amsterdam, ph.credit Daniela Frongia