INTERVISTA A LAURA PATACCHIA

Laura Patacchia, classe 1974, è nata a Terni ed ha frequentato l’Accademia di Belle Arti Pietro Vannucci di Perugia diplomandosi in Pittura nel 1999 e frequentando contestualmente anche il corso di Ángel Bados presso l’Accademia di Belle Arti di Bilbao. Nel 2001 è in Bosnia per un workshop nell’ambito della Biennale dei Giovani artisti dell’Europa e del Mediterraneo e negli anni successivi alterna mostre personali e partecipazioni a progetti collettivi anche di respiro internazionale, in sedi istituzionali e museali.
Laura, nella tua ricerca artistica, l’elemento tessile – fili o tessuti – è il medium che ti consente di indagare e rendere visibile una realtà altra. Possiamo dire che non è semplicemente un diverso punto di vista sulla realtà ma un territorio tra inconscio e ignoto quello che intendi esplorare? Oppure cos’altro?
Il CORPO è il medium. Tutto passa attraverso, intorno e per mezzo del nostro corpo. Il tessile è solo uno dei tanti materiali che uso ma solo perché è legato alla mia storia personale, alle mie RADICI, non m’interessa in quanto tessile, è un discorso legato alla MEMORIA. Nella mia ricerca c’è sicuramente una forte sensibilità verso la condizione umana, cerco di scendere, anche dentro di me, cerco le radici. Le radici di una storia che trascende l’individuale, per riportare alla luce quanto di più nascosto.
Cerco di scendere, per conoscermi, ma spesso sfuggo o trovo quel grumo che m’impedisce di andare fino in fondo, così rimango sospesa, come in uno stato di continua rinascita, e con tutte le tensioni e trasformazioni che essa comporta.
Mi piace indagare nell’intimità per trovare quel lato MISTERIOSO e MAGICO dell’essere umano, quello che teniamo sempre nascosto, e che teniamo al sicuro forse nella parte più buia di noi stessi. D’altronde nascondere, non significa forse tutelare e proteggere? Ha una funzione di riserva vitale. Allora il buio diventa qualcosa di altro: è quello che la nostra storia dice nascostamente, e per cercarla è necessario mettersi in contatto con la notte, la notte di tutte le cose. La notte custodisce i nostri segreti personali, i nostri desideri, i sogni più indicibili.
Attraverso la pratica del lavoro entro in questa zona confusa, fatta di bagliore e penombra, reale e immaginario, perturbante e scintillante. Navigo a vista in questo intermezzo, in questo grumo che sta nel mezzo, dove l’essere è allo stesso tempo bestia e candore.
A proposito del rapporto tra l’opera e il pubblico, i tuoi lavori suscitano una riflessione sul lato oscuro e meno conosciuto dei fenomeni e degli eventi. Di quale messaggio o significato ritieni si facciano portatori i tuoi lavori? Cosa vorresti veicolare al fruitore dell’opera?
Non ho interesse a dare un significato o indicazioni precise al lavoro, quello che m’interessa è condividere una problematica di pensiero, nel quale si apre un territorio di quesiti.
Ripresa dell’installazione “PortaMiaCasa” ph Luca Trauzzola 2015
Dalle installazioni che occupavano fisicamente uno spazio ampio sei passata ad opere più contenute e meno tridimensionali. Come è cambiato e perché il tuo rapporto con lo spazio dell’opera?
La mia procedura di lavoro è stata e sarà sempre aperta alle installazioni.
La profondità e la superficie si appartengono, e provo una forte attrazione verso tutti quei luoghi che sono contenitori umani di fantasticherie passate, amo quei muri rugosi, quelle stanze senza fondo imbiancate di silenzio, quelle pareti che sospirano sotto voce segreti cosmici. Esorcizzata dallo spazio, lavoro come se non fossi altro che un suo prolungamento.
Com’è accaduto qualche anno fa con una serie d’installazioni per una mostra personale diffusa. Si chiamava #ChiaveUmbra che era un viatico attraverso la scoperta del territorio esplorando e segnando un passaggio con il proprio lavoro.
Aprendomi a un mondo di meraviglie, in ogni luogo ho collocato un lavoro, intrecciando la mia storia personale e artistica alle storie dei luoghi e delle persone che mi ospitavano.
Sono passati molti anni dalle prime installazioni, quando intrecciavo fili o corde, cercando di portare al massimo la tensione del segno, tendando di chiudere lo spazio o serrare un’apertura, lavorando sul gioco forza del segno in dialogo con gli oggetti che trovavo in loco, e oggi, come allora accade sempre in rapporto al luogo.
È un “corpo a corpo” con lo spazio e tutto quello che lo contiene, anche l’invisibile agli occhi.
Il nostro corpo si fa veicolo nel mondo, “….fin dove si estende la presenza, là si estende il mio corpo, perché suo è quello spazio, come è del danzatore lo spazio di cui egli si appropria nel danzare”…. “Ogni mio atto rivela, infatti, che la mia presenza è corporea e che il corpo è la modalità del mio apparire… “.
Anche i lavori che potrebbero sembrare avere una vita autonoma nascono da questo rapporto,
la materia è un territorio da esplorare, è quindi un luogo, ha una sua storia, una sua memoria, ha un suo volume, occupa uno spazio fisico e simbolico.
Con i video e le video installazioni è nato tutto da un rapporto rapace con il mondo, come in una sorta d’incantamento sono attirata dai fenomeni che spesso appaiono magici e li catturo, senza costruire effetti video, tutto è vero, diretto, veloce.
Nella tua sperimentazione di materiali e tecniche sei approdata agli spilli…e al velluto. Come scegli i materiali per esprimerti (oppure sono i materiali a “candidarsi”)? E questi hanno un ulteriore significato intrinseco oltre alla funzione?
È un rito, l’attesa del tempo.
Con il lavoro di spilli è come se scrivessi un DIARIO di SOLITUDINE SPERIMENTALE E SEGNICA: tra gli spilli e il segno c’è una metamorfosi comparata, gli spilli rappresentano se stessi come condizione umana, mistica e di dolore, ma rappresentano anche una condizione di speranza visto il loro rapporto con la LUCE.
In più diventano tracce di segni sopra una superficie in continuo divenire.
Segni che sono EMERSIONI di LUMINOSITÀ e cambiano secondo la superficie che vanno ad abitare.
In questi ultimi anni ho ripreso a lavorare con gli spilli, ma ho iniziato molti anni fa, nel lontano 1998.
Nei primi anni intervenivo sulla superficie di oggetti di uso comune per ribaltarne l’archetipo, sentivo lo spillo carico di significato simbolico ed estetico e, rivestendo completamente il volume di questi oggetti, era come se gli creassi una nuova pelle, una PELLE LUMINOSA, era come se donassi loro una possibilità di RINASCITA.
Cercavo sempre l’immagine di simboli di un’intimità remota, lontana e nascosta nel profondo dell’essere umano, oggetti intimi che grazie al ricamo di spilli, si sono rivestiti di corazza luminosa e difensiva.
“aspettAmi-tessiture” spilli, sottoveste, 2000, ph Laura Patacchia
Lo spillo trafigge, penetra e poi attraversa la superficie, creando una sorta di ricamo, nel ripetersi di questa procedura, il corpo del lavoro si manifesta in due superfici: una visibile e una nascosta.
Si tratta di “nascondere svelando”, attraverso un FLUSSO di LUMINESCENZE.
Tra l’opaco del tessuto e il lucido dell’acciaio c’è una forte contrapposizione, uno assorbe la luce e l’altro la riflette, si manifesta così un’alternanza di luce buia, come una luce che esce dagli abissi umani, e le tele lacrimano luce.
I molteplici riflessi luminosi rendono indefinita la percezione del lavoro, una trama ove tutto questo si trasforma in una condizione d’indicibilità. Il pensiero non può autodefinirsi, si sviluppa secondo le sue necessità linguistiche o di racconto.
Appartengo a una cultura, dove i valori popolari si mischiano a quelli mistici e religiosi, una cultura carica di tradizioni, processioni, ricami, cantilene, segreti. Il paese dei miei nonni, è lì che i ricordi permangono nell’anima come tracce, sono lo specchio del cielo natale.
“La testimonianza dell’estate eterna, dove i ricordi si colorano tutti della prima volta”. È l’archetipo della felicità semplice carica di quesiti senza risposte. Ogni piccolo gesto, anche di poco conto, si veste lentamente di un’intenzione rituale, e ogni cosa si trasforma allo sguardo in immagine.
È una sorta di architettura vuota carica di fantasmi. Uno spazio di tempo invertebrato.
E dal materiale e dall’idea come procedi fino all’opera finita – segui un progetto dettagliato o ti fai guidare dall’evoluzione del lavoro?
Dipende, ogni lavoro ha la sua storia.
Più il lavoro è legato al tempo lungo e più si aprono possibilità di accadimenti imprevisti, seguendo anche i suggerimenti dell’errore.
Quindi accade spesso che per quanto possa partire da un’idea strutturata questa poi, si modifica seguendo la reazione del materiale stesso.
Il materiale è cosa viva e non è possibile costruire un rapporto di dialogo con la materia se non si è pronti ad ascoltarla. Amo gli errori, gli incidenti, sono delle
epifanie, aprono alla sorpresa e alla meraviglia, rompono quel ritmo razionale e aprono alla perdizione e alla catarsi, qui la materia diventa un luogo magico.
È sempre tutto accompagnato dal disegno, ma non sono progetti, sono dei pensieri su carta che danno libero arbitrio all’immaginario, e alla fine diventano sempre qualcosa di altro, hanno una loro vita autonoma.
Nel rapporto con lo spazio e quindi le installazioni, mi faccio sempre guidare dal demone del posto, preparo sempre un terreno di studio, che poi esplode in un tempo breve e concentrato, con grande velocità e con una tensione emotiva, quasi ansiosa. Entro in apnea, e ne esco solo quando il lavoro è terminato.
Lo stesso è per i video.
C’è sempre un’opera o una mostra che più di altre rimane ‘addosso’ all’artista. Qual è nel tuo caso quella che senti più parte di te (e perché)?
Ci sono due lavori, entrambi sviluppati nel 1998 circa.
“Trasudazioni” è nato dalla mia problematica dell’insonnia, volevo capire e vedere che forma avessero questi pensieri che non mi facevano dormire, volevo portare alla luce l’ammasso di intime oscurità.
Ho costruito dei guanti scrittori, prima in rame e poi stoffa e ferro, questi mi davano la possibilità di scrivere contemporaneamente con dieci dita e lasciare tracce d’inchiostro, li indossavo come protesi per andare a letto e quando iniziava la fase del dormiveglia, cominciavo a trasferire sul lenzuolo gli impulsi. Era come se dalla punta delle dita spruzzasse via, insieme all’inchiostro, tutto il mio malessere, il calore del corpo e la pelle erano inconsapevoli strumenti di cancellature e sfumature.
Da qui è partito tutto il mio lavoro e ancora questo sta cercando.
Il CORPO è comunicazione, è come un ISOLA che si fa abitabilità desiderante.
Il corpo come desiderio di continuo cercarsi.
L’altro lavoro è un arazzo di spilli che dopo averlo archiviato per tanti anni, l’ho ritrovato, con mia sorpresa, segnato dalla ruggine, era diventato qualcos’altro e aveva preso la sua vera forma.
Gli spilli, attraversando la superficie, avevano lasciato i segni del loro passaggio, la materia dunque ha una sua memoria proprio come la nostra pelle? Il senso più importante del nostro corpo è il tatto, e la pelle come organo è il più esteso del corpo. Ha una memoria e anche un’esperienza tattile.
Ho capito allora che alcuni materiali hanno bisogno di tempo per unirsi, assestarsi l’uno all’altro in un’armonia che si fa strutturante.
Molti altri lavori nascono con questa procedura è legata anche al tempo d’invecchiamento, al DOPO. Quando riesco a svelare LA TRAMA tra il CHIARO e la SUA OSCURITÁ.
A quale progetto stai lavorando o vorresti realizzare nel prossimo futuro?
Sono in attesa affinché tutto possa essere possibile.
“Altro che farfalle nello stomaco” 2013, montaggio di Pino Bernabei 2018