IntervisteSulla soglia dell’Accademia

Intervista a Sophia Ruffini

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https://sophirufus.wixsite.com/sophiaruffini

Le interviste SULLA SOGLIA DELL’ACCADEMIA mi hanno condotta, questa volta, al lavoro di Sophia Ruffini, classe 1997, attualmente allieva del corso di Scultura e nuove tecnologie del contemporaneo presso l’Accademia di Belle Arti di Macerata. Partendo dalla sua tesi “La pelle, l’armatura, la muta”, passando per i progetti che ha realizzato per la Rassegna Casamatta a Fano, per Paratissima Torino e per il Festival del Tempo a Sermoneta, ho cercato di indagare dove sia approdata ad oggi la sua ricerca e in quale direzione stia orientano la sua sperimentazione e il suo lavoro.

La pelle, l’armatura, la muta / Inizio della muta, annodamento ed inamidatura, 2020/21. Ph.credit Giulia Piunti

Esile, fragile, sottile eppure grazie alla sua flessibilità e duttilità, capace di diventare tanto forte e solido da forgiarne ‘armature’: questa dualità, la forza della sintesi degli opposti ritorna spesso nel tuo lavoro (bene/male, interno/esterno, pieni/vuoti). È la ragione per cui hai scelto il filo come medium?

Sicuramente. Il filo è l’elemento essenziale, inconsistente, primordiale, generativo e sottile, ma nell’intreccio della trama diventa sufficientemente forte ed indistricabile.

Il nodo è invece un simbolo potentissimo, che rappresenta la condensazione della materia, un coagulo di tensione, energia e potere. È evidente che racchiuda un mistero.

In passato la dualità e il dissidio che essa porta, è stata molto presente nei miei lavori e nella mia vita, ma sono sempre più convinta che la verità non sia nel bianco e nero (che a volte è necessario), ma nella fusione dei due. Il nodo per me rappresenta questa fusione.

I nostri sentimenti e azioni, ciò e chi che ci circonda, sono elementi complessi. Un intreccio, una trama irregolare è quello che può rappresentarli al meglio. La complessità di una scala di grigi.

Non parlerei quindi di opposti, quanto di ambivalenza. Si è sufficientemente duri ed anche fragili, e la linea di demarcazione è sempre poco netta. È resistente ma anche fragile, è nella sua incoerenza ed ambivalenza che si genera uno spazio sacrale. Una cosa non elimina l’altra, le parti coesistono.

Tuta Anatomica, intreccio e ricamo, dimensioni naturali, 2020. Ph.credit Alessandro Destro

Il corpo è un universo che indaghi, sezioni, scomponi e ricomponi. Qual è l’origine ed il percorso di questa ricerca? E qual è, secondo te, la relazione tra corpo e identità?

Il corpo, e tutto quello che rappresenta, è per me una forte fonte di ispirazione. La corporeità è strettamente legata alla nostra identità personale, lavorare su e con essa ha significato analizzare le diverse parti di me stessa, ed in qualche modo cercarmi e ricucirmi.

La rete bianca intrecciata, era un corpo vuoto e abbandonato, tentativo di riappropriarmi della sua forma non essendone schiacciata.

Ma il percorso era ancora tortuoso, così sono scesa nelle profondità delle viscere, trovandomi faccia a faccia con un nodo alla gola, con un cuore ricucito, con un cervello inchiodato. Questo viaggio verso l’interno, mi ha portato a realizzare prima “Tuta anatomica” e poi la serie degli organi.

Questo sentire viscerale era molto pesante, come un conato, così ho cercato di spogliarmi da esso con “L’appendiorgani”. Mi ha divertita l’idea di tornare a casa e appendere il cervello, invece che il cappotto. Sarebbe molto utile.

Quindi si, il rapporto con il nostro corpo è fondamentale per capire ed essere complici della nostra identità e relazionarci con l’altro.

E questa visione verso l’esterno, l’ho indagata con “La pelle, l’armatura e la muta”, dove la pelle diventa la linea trascendentale e simbolo delle sensazioni vitali.

Appendiorgani, annodamento ed inamidatura, cm. 180 complessivo/organi di lunghezze variabili, 2020.  Ph.credit Alessandro Destro

Cervello rosso, annodamento ed inamidatura, 2020. Ph.credit Sophia Ruffini

Intestino, annodamento ed inamidatura, cm 24×19, 2020. Ph.credit Alessandro Destro

Intestino(dettaglio), annodamento ed inamidatura, cm 24×19, 2020. Ph.credit Alessandro Destro

I fili liberi delle tue sculture gettano un ponte verso l’altro, al di fuori del perimetro dell’opera – e forse dell’artista. Un’estensione che è ricerca di connessione e comunicazione con il fruitore, con il mondo, o, piuttosto, l’espansione di quell’interiorità che indichiamo convenzionalmente come ‘anima’ o ‘spirito’, una dimensione dell’uomo, insomma, che supera quella fisica, visibile, tangibile?

I filamenti cercano di aggrapparsi alla vita, a qualcosa, sono corpicini di resistenza.

Tendenzialmente abbiamo una concezione neoplatonica dei concetti di corpi ed anima, ma il corpo non è la nostra prigione, siamo noi che ci muoviamo nel mondo, e l’anima potrebbe non essere un’entità, un fuoco fatuo a noi interno.

Immagino un’anima, simile a quella del filosofo Jean-Luc Nancy, che è estensione del corpo, che diventa tanto più maestosa quanto fa esperienza; perciò nei miei lavori diventa dei tentacoli filamentosi: cercano collegamenti, congiunzioni, l’Altro. Se l’anima non è questa!

Tra fisico e spirituale, passa una linea molto sottile, che consiste nel modo di rapportarsi, di vedere, di vivere, è un cambio di prospettiva.

L’arte è un linguaggio che ti permette di codificare, declinare e veicolare le tue emozioni? Ha, in questa chiave, anche una funzione catartica e terapeutica?

Si, lo ha subito capito. Ha una chiave catartica e riflessiva per me ora, ma non solo. L’utilizzo del filo è stato per tantissime artiste prima di me, strumento di catarsi ed integrazione del vissuto personale. A riguardo ricordo la frase della Bourgeoise : “Fare arte non è una terapia, è un atto di sopravvivenza”.

Il mio lavoro parte quindi da me, ma non va a me, credo che siano tematiche universali quelle che ho affrontato, altrimenti diventerebbe tutto autoreferenziale e noioso.

Anche se non si direbbe dai miei lavori sono abbastanza inquieta, penso o rumino sempre e ho il bisogno di creare, trasformare, trovare collegamenti tra le idee. Credo che in qualche modo il progettare sia un motivo di vita e anche di fuga.

Prendere una posizione per poi scappare e trovarne un’altra più adatta al momento.

Sculture di filo ma anche installazioni: quale rapporto hanno i tuoi lavori con lo spazio? E come ti relazioni con l’ambiente in cui allestisci i tuoi lavori – ad esempio, il dialogo artista/opera/spazio contribuisce alla genesi dell’installazione?

Fino ad ora non ho mai avuto la possibilità di operare in modo site specific, quindi l’allestimento è stato qualcosa di pensato quando mi trovavo effettivamente faccia a faccia con il luogo adibito. Questo modo di interagire con lo spazio rappresenta una sfida e un prolungamento delle opere, non è un percorso statico: spesso si creano discorsi narrativi nuovi e i significati mutano se messi in contesti differenti.

Per parlare concretamente un allestimento che mi ha soddisfatta moltissimo è quello fatto al Bastione Sangallo di Fano, in occasione della rassegna CASAMATTA 2020: avevo a disposizione lo spazio della casamatta, una sorta di antro nel quale si poteva sbirciare e vedere un corpo a pezzi sospeso, e il cuore illuminato da una luce rossa costituiva un invito ad entrare, un contrassegno della presenza.

Prima dell’allestimento finale spesso ci sono cambiamenti last minute e smantellamenti con calcinacci a pioggia.

Le mie strutture hanno un forte rapporto a livello concettuale con lo spazio, lo cercano, cercano di starci dentro nel modo più vero possibile (di resistere?); sono trasparenti, ne vengono attraversate. Parlando a livello estetico, a volte vengono risucchiate nello spazio, possono anche scomparirci dentro.

Lo spazio invece è qualcosa che voglio affrontare, nel quale voglio gettarmi ed esplorare nelle nuove produzioni.

Installazione Corpo in frammenti, Bastione San Gallo (Fano), dettaglio del cuore. Ph.credit © CASAMATTA 2020, fotografia Valentina Baldelli.

Installazione Corpo in frammenti, Bastione San Gallo (Fano). Ph.credit © CASAMATTA 2020, fotografia Valentina Baldelli.

Negli ultimi lavori la pelle diventa armatura e la muta diventa sinonimo di rinascita e di opportunità; metamorfosi sempre in fieri tra protezione e connessione con l’altro…          

Il mio ultimo lavoro “La pelle, l’armatura, la muta” riflette su quale sia il significato della nostra pelle, parte più esterna del corpo e organo primario del “sentire”. Durante la quarantena, anzi più precisamente appena conclusa, ho accusato un periodo di grande apatia e tristezza. Mi sono chiesta perché questo non sentire?

Ancora una volta, la risposta mi è venuta dal corpo. Questa frase di Umberto Galimberti è molto importante per lo sviluppo del mio lavoro di tesi: “Il mio corpo non è nello spazio e nel tempo, ma dischiude lo spazio e il tempo come distanza o prossimità… solo correndo verso il mondo il corpo si sos-corre. In questo senso il corpo è sempre fuori di sé, è intenzionalità, trascendenza, immediato sbocco sulle cose, apertura originaria, continuo pro-getto e perciò proiezione futura”.

Ho immaginato che la mia pelle si fosse così tanto ispessita da diventare un’armatura, una corazza, confinamento del corpo ai corpi, involucro non osmotico, barriera che impedisce il contatto. La mia Armatura nera, creata facendo xxxx nodi, rappresenta la mia pelle, e la sua muta è il tentativo di liberarmene, trovandone una più naturale e viva.

Il bisogno di alleggerirsi e tornare a sentire.

La pelle, l’armatura, la muta / dettaglio del kabuto (elmo), annodamento ed inamidatura, 2020/21. Ph.credit Giulia Piunti

La pelle, l’armatura, la muta / dettaglio del suneate (schiniere), annodamento ed inamidatura, 2020/21. Ph.credit Giulia Piunti

La pelle, l’armatura, la muta / annodamento ed inamidatura, 2020/21. Ph.credit Giulia Piunti

La pelle, l’armatura, la muta / dettaglio dei calzari, annodamento ed inamidatura, 2020/21. Ph.credit Giulia Piunti

Che cosa significa fare arte per te e quale pensi sia il ruolo dell’arte e dell’artista nella società contemporanea e, più in dettaglio, in questi tempi di cambiamento? A quale progetto stai lavorando (o vorresti lavorare)?

Una volta qualcuno mi disse che fare l’artista è un modo di approcciarsi al mondo, uno stile di vita, io credo che la cosa più importante sia creare, giocare, pensare ed esprimersi per far esprimere qualcun’altro.

Sono appassionanti, a piccole dosi, gli stereotipi degli artisti senza regole e bohémien, ma credo sia importante il metodo, riconoscere il lavoro e il pensiero che c’è alla base del lavoro.

L’arte è un linguaggio, a volte può essere impegnata, altre no, l’importante è che ci dica qualcosa, nel modo più sincero possibile. A me in questo momento interessa parlare in modo sincero, solo così si creano cose solide e vere.

Attualmente sento abbastanza esaurita la tematica del corpo, mi trovo perciò nel momento di immagazzinamento di nuovi stimoli ed idee. Mi piacerebbe lavorare sul linguaggio, ed il nodo ne rappresenta uno fortissimo, faccio riferimento ai Quipus delle popolazioni pre-colombiane, per esempio.

Un altro filone potrebbe essere quello del concetto di spazio e di casa in relazione all’ ospitalità. Vorrei invitare in casa tutti gli ospiti indesiderati che, con tanto fervore, cerchiamo di nascondere a noi stessi ed allontanare.

Barbara Pavan

English version Sono nata a Monza nel 1969 ma cresciuta in provincia di Biella, terra di filati e tessuti. Mi sono occupata lungamente di arte contemporanea, dopo aver trasformato una passione in una professione. Ho curato mostre, progetti espositivi, manifestazioni culturali, cataloghi e blog tematici, collaborando con associazioni, gallerie, istituzioni pubbliche e private. Da qualche anno la mia attenzione è rivolta prevalentemente verso l’arte tessile e la fiber art, linguaggi contemporanei che assecondano un antico e mai sopito interesse per i tappeti ed i tessuti antichi. Su ARTEMORBIDA voglio raccontare la fiber art italiana, con interviste alle artiste ed agli artisti e recensioni degli eventi e delle mostre legate all’arte tessile sul territorio nazionale.