INTERVISTA A SUSANNA CATI

Artista poliedrica, Susanna Cati ha lavorato in diversi ambiti creativi, tutti rigorosamente legati al medium tessile. Dal teatro alla Fiber Art, passando per il design, la danza, l’insegnamento, il suo è un percorso che attraverso innumerevoli tecniche tessili e materiali l’ha condotta ad una sperimentazione sempre in fieri, libera da vincoli, etichette, limiti. Ha all’attivo partecipazioni a mostre, contest e progetti in Italia e in Europa e da tre anni ha aperto lo spazio del suo studio ad altri Fiber Artist.
Moda, design, fiber art: una lunga carriera interamente tra fili, fibre e tessuti. Come il medium tessile è diventato il tuo linguaggio espressivo?
Ho riflettuto molto su questa domanda, perché la mia formazione ha radici culturali legate a materie umanistiche e prettamente artistiche, quindi più vicine alla storia dell’arte, al disegno e alla pittura. Dopo la maturità classica, pensavo che mi sarei iscritta ad architettura ma poi in quel periodo, gli anni ottanta, di forte decentramento culturale, il Teatro di Roma organizzò dei meravigliosi laboratori teatrali nelle città di provincia della regione Lazio. Fu lì che incontrai Giovanni Licheri, assistente di Emanuele Luzzati (grande scenografo e costumista) e che mi innamorai di tutto quello che gravitava dietro le quinte di un teatro: le scene, i costumi, gli oggetti scenici. Questa esperienza indimenticabile che condivisi anche con la mia più cara amica dell’epoca, sfociò subito in un’esperienza lavorativa al Teatro Argentina di Roma dove, come bambine all’asilo, passavamo ore a dipingere, cucire e costruire oggetti scenici con tutto quello che riuscivamo a riciclare (e il riciclo non era ancora di moda). Sedotta da questa esperienza mi iscrissi all’Accademia di Costume e Moda, e da lì mi si aprirono subito molte porte nel mondo del costume teatrale e della moda. Successivamente approfondii questo interesse per il mondo tessile, trascorrendo un anno sabbatico a Spello presso lo studio di Live Morstad tessitrice norvegese, dove imparai tutte le tecniche di tessitura manuale a telaio e tecniche più innovative come la tecnica tufting.
Questa continua e ricca formazione è poi confluita nell’apertura di un mio atelier dove poter creare e sperimentare pattern tessili, arazzi, tappeti e tanto altro.
Gli anni Ottanta, lungi dall’essere solo un decennio all’insegna della superficialità, costituiscono per le artiste che hanno vissuto e operato in quel periodo femminista e post femminista un’arena nella quale reclamare la pari dignità artistica di pratiche considerate marginali, ma anche per dibattere importanti questioni identitarie o di genere. Ecco dunque che il punto ricamato o l’incrocio di una trama con un ordito possono caricarsi di una qualità sovversiva, un’arma attraverso la quale poter rivendicare il proprio posto non solo nel campo dell’arte ma anche nella società. Il pieno riscatto avverrà poi negli anni Novanta quando tutto ciò che è considerato “minore” troverà un terreno fertile nel quale poter esprimersi.
Alla luce di questo, pur continuando ad usare tutti i medium artistici come la pittura o il disegno, diventa chiara per me la scelta di usare il quello tessile. Le donne hanno sempre raccolto, risparmiato e riciclato le cose, perché riusandole prendevano nuove forme, avevano un linguaggio segreto, ricreavano un immaginario misterioso. Il tessuto, il filo, le fibre costruiscono una specie di ricostruzione archeologica di un vissuto, anche del mio, un album dei ricordi da proteggere.
Che valore e significato ha per te fare arte e che ruolo ha la pratica artistica nella tua vita?
Oggi la maggior parte delle persone è interessata solo a ciò che utile, io invece la penso come Kant: “la bellezza è l’arte, è senza concetto e senza scopo”.
Noi abbiamo due modi di vedere le cose: un modo oggettivo che le mostra per come sono e l’altro, invece, che lo sguardo immediato non riesce a catturare. Per me l’arte esprime quella visione che lo sguardo non riesce a catturare solo con i sensi, che va oltre, difficilmente catalogabile e oggettivizzabile. All’inizio ero affascinata anche dalla funzione di un’opera, ma recentemente mi sono accorta che sempre, anche nei pezzi funzionali (tappeti arazzi ecc.), il mio approccio è sempre lo stesso – giocoso, libero quasi infantile – che corrisponde ad una mia idea del mondo e a me stessa. Quindi direi che nella mia vita, la pratica artistica si interseca totalmente con il mio quotidiano, non c’è separazione; è semplicemente il mio modo di stare al mondo e attraverso questo cercare la felicità.
Mi piace molto la frase di Maria Lai:”L’arte è come una pozzanghera che riflette il cielo, può passare inosservata ma l’immagine del cielo si ricompone sempre.”
Realizzi le tue opere attraverso una pluralità di tecniche e di materiali in una sperimentazione continua delle une e degli altri. Questo è un aspetto della tua ricerca artistica che è meramente pratico oppure è parte integrante del significato dei tuoi lavori?
Realizzo le mie opere con le più disparate tecniche e con tutti i materiali possibili, a volte è la tecnica che suggerisce un’opera, altre volte è il materiale. Parto da un’idea che quasi sempre abbozzo sulla carta ma poi mi lascio sedurre dal materiale che più si avvicina a quell’idea abbozzata. Direi quindi che la scelta di tecnica e materiali è parte integrante dei miei lavori. Non credo che nel mio percorso artistico abbia veramente scelto, le cose succedono naturalmente secondo una fatale sequenza di causa ed effetto. Anche le cose più ordinarie possono diventare motivo di creatività, allenando l’occhio educando la capacità di “vedere” c’è sempre la possibilità di reinterpretare i pensieri: “I materiali non sono importanti per quello che effettivamente sono ma per quello che riescono ad esprimere” (Louise Bourgeois)
Prediligo il filo e il tessuto in generale ma se la carta giapponese è funzionale all’effetto da me desiderato, finisce che uso la carta giapponese. Questa continua ricerca di tecniche e di materiali è imprescindibile dal mio percorso artistico. Cercare una particolare mano di una fibra o una porosità particolare della carta sono parte integrante del processo creativo.
Da installazioni modulari itineranti come il progetto Emotional rescue fino a progetti site specific – ad esempio i Muri proposti a Bologna lo scorso anno – come si relazionano i tuoi lavori con lo spazio in cui vengono allestiti?
Il progetto Emotional Rescue è nato per caso, erano stati organizzati dei laboratori manipolativi espressivi sulla tessitura con dei telai circolari. Avevo preparato un workshop sul mandala, per cui i partecipanti del corso tessevano con tutti i fili a disposizione una composizione tessile a forma di piccolo tappetino circolare. L’esperienza era stata intensa e interessante e a fine corso avevo tra le mani queste piccole opere tessute a telaio con cui giocavo, somigliavano a dei fiori coloratissimi, così mi è venuto in mente di attaccarle a quei supporti in legno che usano i fiorai. La forma del fiore, il suo materiale e i colori mi hanno suggerito l’idea di un testimone di emozione e bellezza. Ho immaginato questo fiore come un testimone visuale che attirasse l’attenzione su un luogo che avesse perso la sua antica bellezza. Da qui poi la nascita dell’istallazione itinerante “Emotional rescue” che come si vede nasce dall’oggetto per diventare un’idea. In questo progetto anche lo spazio fisico è parte integrante dell’istallazione, perché la persona che acquista un fiore e lo posiziona in uno luogo scelto per poi fotografarlo, crea a sua volta una nuova immagine e interagisce col progetto.
Nel tempo, con Emotional Rescue abbiamo creato una bacheca virtuale dove tutti potessero postare le loro foto e i loro fiori, oltre a portare in vari luoghi fisici (ad esempio ad Assisi, a L’Aquila, ad Avella, ecc.) l’installazione stessa.
Nel caso dei Muri, esposti a Bologna presso i Teatri di Vita, il processo creativo è stato l’opposto. Sono partita dal luogo specifico e quindi dallo spazio in cui sarebbero state allestiti con in più il suggerimento tematico della manifestazione che nell’anno 2020 poneva l’attenzione sul concetto di muro, appunto.
I muri che ho pensato e creato per Bologna erano leggerissimi, una sorta di falsa rete ad intreccio con ampi spazi aperti per suggerire all’osservatore la mia idea di immaginare solo muri “aperti”.
.
Come nascono i tuoi lavori? Quali sono le fonti di ispirazione? Quali sono gli artisti o i movimenti che ti hanno maggiormente influenzato? Quali senti più affini alla tua ricerca?
Come ho detto i miei lavori non nascono mai nello stesso modo ma iniziano sempre da una narrazione e da un pensiero maturato dentro di me, prima di essere un’opera sono un pensiero e un progetto narrato.
Leggere un libro, incontrare, camminare da sola dentro una faggeta, scartabellare dei giornali piuttosto che vecchie foto, tutto è fonte d’ispirazione e arriva al momento giusto. L’idea prende piede e lo step successivo è capire come rappresentarla. Il processo creativo e realizzativo non può prescindere dalla sperimentazione di diversi materiali il più delle volte tessili.
Molti sono gli artisti che mi hanno influenzato, difficile farne una lista; essendo stata un insegnante di storia dell’arte, tutta l’arte a 360 gradi mi ha attraversato e trafitto. Mi hanno influenzato tanti artisti, non necessariamente fiberartist, penso a Tamara de Lempika e a Geogia O’Keeffe.
Mi sono interessata molto al movimento del Bauhaus, che non fu solo una scuola, ma rappresentò un punto di riferimento fondamentale per tutti i movimenti d’innovazione nel campo del design dell’architettura e la ricerca tessile (penso ad Annie Albers).
Per anni ho continuato ad andare ad Ulassai per scoprire tutto quello che c’era da scoprire su Maria Lai fino a collaborare con la cooperativa che aveva tessuto per lei le famose caprette. Ho amato gli arazzi di Alighiero Boetti e mi entusiasmano le opere monumentali di Sheila Hicks, trovo molto interessante il lavoro di Hella Jongerius e di Olafur Eliasson.
Kandinskij diceva che ogni opera d’arte è figlia del suo tempo. Viviamo un tempo di grande immaterialità, eppure sono moltissimi i giovani artisti che utilizzano le fibre e i tessuti come medium. Cosa rende, secondo te, così attuale la Fiber Art?
Viviamo in un tempo di grande immaterialità e la realtà virtuale ha sostituito in parte la vita reale, proprio per questo cresce a latere l’esigenza di “riutilizzare “la materia e questa non è un’esigenza solo ambientale quanto fisica. i giovani artisti si avvicinano alla Fiber Art perché hanno voglia di “sporcarsi le mani” di “riutilizzare” “riciclare” “toccare” e questo con la Fiber Art lo puoi fare con tutta la libertà possibile, e questo è anche il motivo che la rende così attuale.
Quali sono le differenze nel tuo percorso di ideazione e creazione tra un’opera d’arte e un progetto di design?
Le vibrazioni esterne e l’ispirazione sono simili, cambia il processo di trasformazione tra un’idea e la sua realizzazione. Il progetto di design risponde principalmente alla funzione che dovrà avere, si relaziona con l’ambiente che lo ospiterà e molto spesso viene filtrato dalla committenza; in sostanza la funzione è importante come l’estetica. L’opera d’arte nasce da un’esigenza mistico-fisica, sei molto più libera di esprimerti perché risponde soltanto a te stessa e a quello che vuoi comunicare
Come ha influito quest’ultimo anno così anomalo sul tuo lavoro e sulla tua ricerca? E pensi che i cambiamenti innescati dalla pandemia condurranno ad un diverso modo di operare nel settore artistico e culturale?
Dopo un iniziale e comprensibile disorientamento, non ho fatto altro che chiudermi nel mio studio e lavorare, concentrata soprattutto sul tempo di profondità, il Kairos. Naturalmente alcuni progetti si sono fermati, altri hanno avuto modo di svilupparsi tramite mezzi digitali, tutto il settore si è riversato nel web e sui social ed è sicuro che questo ci ha aiutato a sentirci meno isolati. Credo che questi cambiamenti innescati dalla pandemia continueranno ad influenzare il settore artistico e culturale, ma credo anche che ritornare in “presenza” dentro i musei, le mostre, il teatro le sale musicali sia imprescindibile.
Al riparo, 2021, opera in scatola in vetro piombato, cotone naturale tinto e tessuto a telaio, fili, feltro, nylon, smalti, carta, photo credit B.Stavel
A quale progetto stai lavorando in questo periodo?
In questo periodo ho lavorato nel campo del progetto di design per clienti privati, sia nel campo tessile (tappeti e arazzi personalizzati) che per opere in carta. Ho disegnato e fatto realizzare tutti i costumi del balletto per la compagnia svizzera Eremdance e per la Dance Contemporary ”We might kiss” della compagnia DNA Dance Company di Bologna.
Attualmente sto terminando il ciclo di opere che farà parte del progetto Kairos, un progetto a cui tengo molto perché è stata la mia terapia artistica culturale e di vita nel lungo tempo di “confinamento”. Kairos dopo l’anteprima a Perugia sarà esposto a Vienna in settembre.
C’è un progetto a cui vorresti riuscire a dar forma nel breve o lungo periodo?
Continuerò a lavorare nel mio studio perché non potrei fare altrimenti. Nel breve periodo però, ho in progetto di lavorare con la fiber art applicata alla dimensione 3D. Nel lungo periodo invece, mi piacerebbe mettermi a disposizione, magari anche con altri artisti per creare un progetto corale, qualcosa che non abbia solo funzione estetica ma direi anche terapeutica in un luogo, una città e perché no in una comunità. Vorrei fare dell’evoluzione una missione.