Intervista a Sylvie Clavel
si ringrazia Daniela Gambino per la collaborazione
Ph. credits Daniela Gambino e Angelo Pitrone
Grandi opere complesse che richiedono talvolta anche anni per essere portate a termine, attraverso un esercizio lento, paziente, certosino: l’arte è per Sylvie Clavel un’esperienza quotidiana, quasi una filosofia di vita, lontana anni luce dal mercato e dai suoi meccanismi. Per questa artista francese che vive in Sicilia da molti anni, l’opera è sinonimo di creazione, mai di prodotto. E per lei tra vivere e creare non c’è soluzione di continuità.

Danza, yoga e nodi: tre grandi ‘amori’. Qual è la relazione tra queste tre discipline/arti e che ruolo hanno avuto e hanno nella tua vita?
Il legame tra di loro si è intrecciato a mia insaputa, non mi sono detta – “un giorno legherò queste tre cose insieme”; sono parte della mia vita, il mio vissuto e ho vissuto con loro. Credo che il motore sia un desiderio di esprimersi, di esteriorizzare me stessa.
La danza mi ha formata, mi ha dato il gusto del movimento ben fatto, attraverso la ripetizione continua. Lo spirito della danza mi ha abitata, l’ho amata con passione, ho amato i miei maestri, dai miei otto ai ventisei anni non ho pensato ad altro, mi piaceva tutto quello che c’era intorno, la vita che offre questa disciplina, le coreografie, l’allenamento, gli spettacoli, l’insegnamento.
Lo yoga è una scoperta che faccio attraverso mio padre a 13 anni, mi porta lui a una lezione. Poi la coreografa Sheela Raʝ lo pratica e ci chiede di farlo per le performance. È un ottimo consiglio.
I nodi all’inizio sono una attività passatempo, mi piace annodare il cordame. La mia amica Jane mi regala un libro, “Macramé e creative design in knotting”, di Dona Z.Meilach, nel ’75, ma prima che incontri e mi confronti con un gruppo di artisti a Parigi, passano dieci anni.
Queste tre discipline si sono installate nel mio inconscio, si sono legate tra loro e loro a me, fra più dimensioni, corpo, viscere e mente. Hanno creato connessioni emotive, sentimentali, e si sono armonizzate senza che io intervenissi direttamente.
Le tue sculture nascono dall’incontro tra la corda e le tue dita attraverso un contatto fisico diretto con il medium – la corda – e con l’opera, senza la mediazione di attrezzi e, mi sembra di capire, senza un progetto preparatorio. Mi racconti da dove nascono, come crescono e si sviluppano i tuoi lavori?
La mia immaginazione visualizza una figura, provocata da un oggetto da assemblare, da innestare, da portare a nuova vita. Io vedo una maschera e parto per un viaggio: è come se dessi un corpo a quello che vedo, nodo dopo nodo. È un desiderio compensativo di fare qualcosa che io non posso più fare, assumere posizioni che non posso più prendere dopo un incidente di macchina nel ’79 e mi impedisce di continuare a danzare a livello professionale. Come l’africano che medita, seduto con le ginocchia piegate. Dopo il ’79 io divento più figurativa, mi concentro sul corpo.
Cos’è il nodo e cosa significa per te?
Il nodo è come una cellula che prolifera intorno a una forma. Uno schema ripetuto capace di creare di tutto. Interviene la tensione, la concentrazione che ti permette di seguire, e quella va sostenuta.
Gesto, forma, contenuto: come declineresti i tuoi lavori?
Quando sei nell’improvvisazione, ma una improvvisazione che diventa molto centrata, una partecipazione, un corpo a corpo con l’opera, che tu modifichi e ti modifica, una attitudine dove sei completamente dentro quello che stai facendo. Seguo un desiderio, annullo il tempo. Non mi do scadenze.
Alcune sculture tessili sono in permanenza a Sambuca (AG). Mi racconti questo progetto e questa collezione?
Sono nove lavori fatti nell’arco di ventitré anni: è stata una necessità, dopo 15 anni di convivenza con un siciliano di quel luogo, che muore, e io devo decidere se restare o andare. Il paese conosce i miei lavori, sviluppati nel laboratorio della casa dove vivevo, e mi propone di sistemarli. Ma non è stato immediato.
In un certo modo a Sambuca creo una residenza d’artista ante litteram, lascio il mio laboratorio a porte aperte dal 2001 al 2012, una cosa innovativa in un paese. Ho richiesto io che le opere venissero curate, oltre la mia presenza.
Poi l’amministrazione, si è resa disponibile a investire per mettere in mostra permanente le mie creature – e non era una cosa scontata. Ho dato, quindi, il mio contributo perché da lì si è creato un itinerario artistico e le mie opere costituiscono una delle tappe.
C’è un’opera che particolarmente ti rappresenta o dalla quale non ti separeresti?
Non ho mai venduto, amo tutte le mie opere. Sono legata, è il caso di dirlo, a ognuna di loro. Sono critica e scettica verso il mercato dell’arte. Ma meglio questo che quello delle armi. Non voglio fare moralismi. Questo attaccamento è una delle mie cifre stilistiche, è viscerale.
A quale opera stai lavorando in questo momento? Quali i progetti (o i sogni) per il futuro?
Ho intrapreso nel novembre del 2017 il “Cronos” – non a caso si chiama tempo, assorbe molta energia.
Sono partita da una maschera africana che posseggo dal 1982, ho utilizzato sette stampi di legno che provengono da una fonderia del Vermont. Li ho portati con me dopo una lunga permanenza in America.
“Cronos” riassume molte cose, molte parti della mia vita.
In questo momento mi sono presa una pausa da lui. Ho lavorato a una coppa, un’opera più piccola e maneggevole. Lo osservo come un enigma. Non so come proseguire con “Cronos”, il confronto è inevitabile.
È una necessità naturale. Io credo che bisogna sapere rinunciare alle proprie pretese di perfezione. Lasciarsi trasformare. Portare avanti determinazioni più semplici. Accettare che le cose vadano diversamente da come si voleva. Che una certa verità emergerà da sé.
“Cronos” deciderà come ripresentarsi e chi essere. Proprio come le cose importanti e grandi della vita.
Cosa sogno? Un posto dove dare casa alle mie opere create ad Agrigento. Una città piena di potenzialità sopite che potrebbe dare più spazio e cura agli artisti e alla sua dimensione culturale.