INTERVISTA A VIRGINIA RYAN

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Virginia Ryan, artista australiana con cittadinanza Italiana, vive e lavora tra Italia e Australia. Laureata alla National Art School of Art and Design Australia e al School of Art Therapy Edinburgo, dal 1981 lavora a livello internazionale utilizzando pittura, fotografia, scultura e forme installative, aprendosi a importanti collaborazioni con antropologi e musicisti.

Ha vissuto e lavorato in diversi paesi sparsi in tutti i continenti. Nel 2004 ha co-fondato la Fondazione per l’Arte Contemporanea (FCA) in Ghana, di cui è stata la prima direttrice.

La sua ricerca artistica incentrata su identità e memoria trova forma spesso attraverso materiali abbandonati.

Ha esposto, tra le altre, nelle Biennali di Malindi, Dakar, Venezia e nel 2019 al Museo Oscar Niemeyer per la biennale Fronteiras Abertas in Brasile. Sue mostre personali si sono tenute nell’ambito del 51° Festival Internazionale Dei Due Mondi di Spoleto, al Whitworth diManchester, al Museo Pino Pascali e ai Dovecoat Studios di Edinburgo.
Dal 2018 è Accademica Benemerita dell’Accademia Piero Vannucci e fondatrice del laboratorio Make Art Not Walls con Richiedenti Asilo in Italia.

Australia, Africa, Europa: hai vissuto in molti paesi e continenti confrontandoti con culture diverse. Indubbiamente una ricchezza di esperienze da cui attingere anche come artista oltre che come donna. Come e quanto ha influito questo ‘abitare’ il mondo sulla tua ricerca artistica e sulle tue opere?

La mia vita è sempre stata di dislocazione, arrivi e partenze di incontri illuminanti. Mi rendo anche conto però di provare momenti di abbandono profondo di non appartenere a nessun luogo e questo mi ha segnato. Fin da piccola, nella metà degli anni sessanta, viaggiando con la mia famiglia dalla mia città di origine fino all’Europa; mi era palesemente evidente come una specifica visione del mondo e la mia dipendenza da essa fossero precarie. Contemporaneamente percepivo come i membri della famiglia umana fossero costanti tessitori di storie che ci connettevano gli uni agli altri: ho condiviso molto con altri esseri umani, in qualsiasi posto ci trovassimo. Per me c’è stata a lungo una tensione tra un senso di fragilità, di potenziale invisibilità e l’opposto: forza nell’unità, una forte personalità che si “radica” e si sente al sicuro.
Ho sperimentato molte volte cosa vuol dire sentirsi uno ‘straniero’: il peso, la disconnessione. Tuttavia quella stessa posizione dell’estraneo consente l’osservazione e l’intervento non così rapidamente concessi al nativo. Sono cresciuta vedendo che c’erano differenze fra le persone ma anche enormi similitudini. Suppongo che sia stata una combinazione di educazione -i miei genitori erano attenti nell’ aiutarci ad “adattarci”- e la natura, che mi ha permesso di concentrarmi spontaneamente sulle somiglianze.
I miei studi in Canberra, Australia, alla National Art School negli anni settanta, mi hanno permesso di tornare nel “vasto mondo”, letteralmente attraversando l’oceano (prima ad Alessandria in Egitto) e iniziando a vedere lo svolgersi della vita con la sensibilità di un artista alle prime armi. Da quel momento in poi, ho sentito il bisogno di identificarmi come artista. Mi dava il senso di appartenere a una comunità globale pur nobilitando la posizione dell’estraneo. Concedendomi il diritto di essere chiamata artista, ne seguiva una responsabilità. Dovevo mettermi al lavoro! Essere un artista era un modo di immaginare la vita, un ingresso nel mondo di altri artisti, quell’arena di persone diverse, di linguaggi visivi, desideri umani, di successi e fallimenti spettacolari. Per molti anni sono stato più interessato alla sperimentazione che all’esito; nell’attesa che qualcosa accadesse ad un certo punto della realizzazione dell’opera. Una sorta di svolta, suppongo!
Col passare del tempo, sono diventata più consapevole della nostra globale architettura sociale: razza, genere, economia, geografia e istruzione. Sono diventata iper consapevole del privilegio e che anche con esso il mondo può sentirsi solo. Questa conoscenza mi ha convinto a lavorare di più e mi ha permesso di comprendere il significato della perdita, quella profonda (migrazioni forzate, sconvolgimenti sociali e mancanza di accesso ai bisogni primari), in un mondo allargato per molti dei miei fratelli e sorelle. Arte e Vita per me sono profondamente intrecciate, quasi la stessa cosa.

‘Float n.1, woven fabric offcuts,230x110x30cm

Hai utilizzato spesso tecniche e materiali tessili. Perché hai scelto questo linguaggio per alcuni tuoi progetti? Ha, per te, il medium tessile un significato ulteriore intrinseco – evocativo, concettuale, ecc. – rispetto alla sola funzione?

Decenni fa, l’usare un ago per passare un filo attraverso la carta da disegno, per esempio, era estremamente soddisfacente e in qualche modo sovversivo.
Pensandoci, non ho mai acquisito competenza nel cucire, lavorare a maglia o ricamare! Ero, tuttavia, consapevole della pratica artistica femminista e delle ragioni politiche del riciclare e trasformare.
Quindi, anni dopo, quando ho lavorato in Africa dell’Ovest (Ghana e Costa d’Avorio) sono diventata molto consapevole dell’estetica del tessuto tradizionale, del rammendare e disfare per fare di nuovo; vivendo in un contesto culturale dove questa era una necessità. Ho visto che da tale bisogno nasceva una profonda bellezza. Quindi, mi sono interessata sempre di più ai ricordi “incarnati” dalla stoffa, filo, lana, cotone, plastica e nylon. Mi interessava come la fibra e il filo accendano il potere del pensiero artistico “sistemico” e sposarlo con le storie dei materiali.

‘The Ties That Bind Us’ 2015, tecnica mista e fili su legno e vetro, 120x150cm

Nel processo di ideazione delle tue opere tessili come procedi? Sono frutto di un progetto dettagliato o di un flusso creativo che l’artista non può controllare completamente?

Questo dipende, per esempio, i tre progetti che ho realizzato, fin dal 2007, con tre gruppi di ricamatrici italiane sono immaginati e pianificati in anticipo, dalla scelta della location e dei partecipanti, fino ai materiali e i soggetti trattati. In altre occasioni, è una risposta più intuitiva al tessuto, alla forma, all’evidenza visiva. Infine, la possibilità che può contenere un suggerimento dell’immaginario; il mezzo entra in un flusso creativo con me, dove Kairos e Chronos si incontrano. Molto spesso il processo del fare richiede molto tempo e bisogna “uscirne”.

MUTAGENICS 2020, carta, pittura acrilica e filo, diametro 25 ciascuno

Nei tuoi scudi (che ho visto per la prima volta alla Galleria Montoro12 a Roma) convergono una molteplicità di tecniche, materiali, citazioni antropologiche, i colori dell’Africa… insomma opere che hanno una stratificazione che si presta ad infinite letture…

Col ciclo degli scudi (che ora preferisco definire “Diffrazioni Personali”), ho reperito i materiali nel mio studio, per le strade e nei mercati, o da precedenti opere per annodare/allacciare/legare insieme una cosmologia intima e personale. Oggetti della memoria, raccolti da luoghi diversi, convivono in nuove relazioni sulle sottostanti forme metalliche rotonde degli scudi, offrendo infinite varianti e associazioni potenziali.

Shield 16, ciclo Personal Diffractions, 2016-2021

Shield n.29 dal ciclo ‘Personal Diffractions’ , Australia, 2020

Tradizionalmente – e in molte culture è ancora così – alle attività tessili è associata la donna. C’è in qualche tuo lavoro tessile l’evocazione o il rimando ad un universo femminile fatto di conoscenze ancestrali e di un sapere depositario di cultura/e ed archetipi antichi?

La risposta è inequivocabilmente un sì. Questo si è sviluppato dal fare arte, dal tempo speso in lunghe elaborazioni che mi ha trasportato in un luogo nel quale anche io ho potuto sentire un profondo legame con il così chiamato “lavoro femminile”. L’azione ripetitiva di far passare i fili attraverso, sopra o sotto, di evocare “Patientia e Contemplatio” collega il tempo, il luogo e il genere attraverso l’espressione manuale. Se chiudo gli occhi, immagino i fili come una sorta di cordone ombelicale cosmico, un trasmettitore primordiale.

detail, ciclo Personal Diffractions 2016-2021

Hai conseguito, tra l’altro, un Master in Arte Terapia. Dunque secondo te l’arte ha anche un valore catartico, un potere terapeutico? E quanto e come ha influito questa formazione sul tuo lavoro di artista?

Ho studiato arte terapia a Edimburgo dopo aver passato due anni in un ex Jugoslavia devastata dalla guerra. È stato un periodo nel quale mi sono spesso interrogata sul ruolo dell’artista, sui processi creativi di società in conflitto e sul mio personale disagio nell’essere sola nello studio mentre il mondo sembrava esplodermi intorno. Per la mia esperienza, il fare arte può essere, a volte, un momento estremamente catartico sia per l’autore che per lo spettatore. La formazione come arte-terapeuta ha influenzato il mio lavoro di artista poiché ho incorporato i concetti di “oggetto transizionale / spazio negoziato / coraggio e creazione nella mia pratica in studio. Questa è stata una crescita naturale che si è sviluppata nel tempo e mi ha colto di sorpresa.

Hai ideato e realizzato diversi progetti condivisi, lavori collettivi e laboratoriali in cui era primaria la cifra partecipativa, corale, sociale e multiculturale. Ce ne racconti qualcuno?

“Intransitu”, parte di Intramoenia-ExtraArt in Puglia a cura di Giusy Caroppo e Achille Bonito Oliva nel 2007, è stato un esempio della natura relazionale-comunitaria di alcuni miei lavori. Ho invitato un gruppo di ricamatrici di Muro Leccese a ricamare una parola o una frase su delle federe bianche. Chiedevo una parola che indicasse un passaggio epocale nelle loro vite. Il sound artist e antropologo americano Steven Feld, mio partner nel progetto, ha registrato le donne, tutte maestre ricamatrici, mentre parlavano delle loro opere/parole. Questo progetto audio è diventato parte integrante della presentazione nel castello di Acaya.

con le partecipanti del gruppo Arakamare di Muro Leccese, Settembre 2007

INTRANSITU, Palazzo Collicola ,Spoleto Festival 2008

Cos’è arte per Virginia Ryan? E come è cambiato il tuo approccio all’arte negli anni?

L’arte o è morta o è viva. Parla all’anima e trascende il proprio tempo, oppure fa appello a sensazioni più fugaci e si blocca nel presente. L’arte è un modo di resistere, rischiando di re-incantare e ri-animare. Quindi, per me, è spesso collegato al concetto di Technè. Molta arte contemporanea è venuta al mondo già morta, svuotata di significato o sedotta dalla superficie immediata e piatta dell’ “Istagrammabilità”. Questo è un fenomeno che mi incuriosisce e voglio vedere dove poterà.  Nel tempo, l’arte è diventata il modo in cui vivo e chi sono. Sono più esigente ma ho anche accettato la sua centralità. Il Covid-19 ha accentuato, per me, la potenziale natura curativa e sovversiva del fare arte. Forza! 

Auto Ritratto con Pennelli e Pagne’ 2013

Barbara Pavan

English version Sono nata a Monza nel 1969 ma cresciuta in provincia di Biella, terra di filati e tessuti. Mi sono occupata lungamente di arte contemporanea, dopo aver trasformato una passione in una professione. Ho curato mostre, progetti espositivi, manifestazioni culturali, cataloghi e blog tematici, collaborando con associazioni, gallerie, istituzioni pubbliche e private. Da qualche anno la mia attenzione è rivolta prevalentemente verso l’arte tessile e la fiber art, linguaggi contemporanei che assecondano un antico e mai sopito interesse per i tappeti ed i tessuti antichi. Su ARTEMORBIDA voglio raccontare la fiber art italiana, con interviste alle artiste ed agli artisti e recensioni degli eventi e delle mostre legate all’arte tessile sul territorio nazionale.