Intervista con Lea Contestabile

La memoria è il vero materiale di cui sono fatte le opere di Lea Contestabile. Un materiale che maneggiato con cura ed abilità le consente di dar forma a lavori in cui si intrecciano voci, storie, saperi antichi, tracce di uomini, donne, comunità.
Aquilana, dopo l’Accademia, grazie ad una borsa di studio dell’Accademia di San Luca, ha operato presso la Calcografia Nazionale di Roma, diretta da Carlo Bertelli. Docente di Anatomia Artistica all’Accademia di Belle Arti di L’Aquila, nel 1995 ha fondato il MuBAQ – Museo dei Bambini L’Aquila e dopo il terremoto si dedica alla realizzazione del Villaggio d’arte dei bambini a Fossa (L’Aquila). Nel 2011 è stata invitata alla Biennale di Venezia. Una attività artistica la sua, ampiamente documentata da esposizioni e partecipazioni in Italia e all’estero; per citare soltanto le più recenti, le mostre al MACRO – Museo d’Arte Contemporanea Roma, alla Casa della Memoria e della Storia di Roma (2019) e all’Istituto Italiano di Cultura a Zagabria (2020). Infaticabile sperimentatrice, realizza anche libri d’arte, video e spettacoli collaborando con scrittori e musicisti. Organizza manifestazioni ed eventi volti alla costruzione di un mondo di suoni, parole, immagini, colori e movimenti. Le sue opere si trovano in Musei nazionali e internazionali.
I tuoi ‘arazzi’ sono in realtà vere installazioni in cui elementi differenti sono connessi attraverso il filo. Che ruolo assume la fibra in queste opere, è un semplice mezzo tecnico oppure ha anche un significato ulteriore?
In un’opera d’arte la tecnica e il medium usati non sono mai fine a se stessi; è proprio la forma il più delle volte veicolo di significato. Quando nel 1995, è nata in me l’urgenza di collegare strettamente il mio lavoro artistico al mio vissuto ho dovuto inevitabilmente cercare strumenti e pratiche congrui al nuovo modo di affrontare la mia ricerca.
Il bisogno di AUTENTICITÀ e di NARRAZIONE hanno richiesto ovviamente l’utilizzo di nuove modalità espressive.
Il filo, per sua natura, è metafora della vita stessa. Il filo del destino è ciò che unisce i diversi momenti dell’esistenza.
Il filo realizza legami, nodi, reti, trame. Risulta per questo lo strumento più appropriato per “tessere” o “ritessere” rapporti, affetti, emozioni, livelli psicologici diversi (inconscio, conscio, subconscio). Filare, tessere, ricamare, cucire rappresentano un atto creativo che riunisce i diversi momenti della vita e per questo tra le varie possibilità tecniche scelte (collage, foto, ceramica…) ho incluso il cucito.
Con i fili e i nodi ho realizzato, tra l’altro, diverse installazioni e performance dal titolo “I quipus della memoria”. I quipus sono un insieme di cordicelle annodate, utilizzate nella cultura inca e in quella peruviana per calcoli matematici ma anche per ricordare e descrivere sommariamente avvenimenti storici ed economici, importanti per la collettività.
L’ultima iniziativa in ordine di tempo, un evento interdisciplinare di arte, musica, danza, filmografia “I Quipus della Memoria – ContaminAZIONI”, è del 2019 all’Aquila presso le 99 cannelle e il MuNdA – Museo Nazionale d’Abruzzo nell’ambito di Cantieri dell’immaginario a cura del Teatro Stabile.
“KIPUSNERO”, lane, ceramica, legno, fili, dimensione variabile, anno 2006, ph. credit archivio Contestabile
Il primo ‘materiale’ tessile che hai utilizzato nei tuoi lavori è stata la garza, una scelta – se ho ben capito – più legata alla cura – in senso ampio – che non al dolore. È così?
La tua domanda mi ha costretto a tornare indietro per chiedermi quando è iniziato l’uso del materiale tessile nel mio lavoro.
In realtà è sempre stato presente. Già nel 1974, presso la Calcografia Nazionale, nelle mie incisioni avevo sperimentato, insieme al bravissimo stampatore Sannino, stampe realizzate coprendo le lastre con la tarlatana (garza che si usa per pulire le lastre). Successivamente, anche molti dei miei quadri astratti del 1976 dal titolo “Cancellature”, sono velati da garze che lasciano vedere in trasparenze. Un’opera già allora presenta uno strappo ricucito da un filo rosso.
Il primo grande cucito, in cui utilizzo le garze legate alla cura è “Rammendo/rammento” del 1995.
È una sorta di grande croce realizzata con le bende che avevo recuperato in ospedale dopo un brutto incidente di percorso in cui ho pensato di perdere tutto, in particolare la mia famiglia e i miei affetti. Sulle garze sono ricamate le silhouette delle persone a me care.
Tema fondamentale della tua ricerca è indubbiamente la memoria. Ma cosa significa esattamente ‘memoria’ per te e perché è così importante preservarla, conservarla, tramandarla anche attraverso l’arte?
Si tutto il mio lavoro può essere concepito come un continuo “esercizio di memoria”, titolo che ho dato anche ad una mia personale presentata da Teresa Macri.
Con il senno di poi, come succede spesso a noi artisti, ho capito che da sempre la memoria è stata al centro del mio lavoro. Anche quando ho iniziato a dipingere, lavoravo per strati; sovrapponevo colore su colore per poi ‘cancellare’ con il bianco o con il nero lasciando trasparire solo spiragli, piccole porzioni del mondo che avevo costruito piano piano. Una scelta di frammenti che valeva la pena di rendere visibili.
Il 1995 è un anno per me cruciale.
La perdita di mio padre e problemi di salute hanno modificato il mio sguardo di fronte alla realtà e inevitabilmente al mio lavoro.
È subentrata allora la voglia di ancorare la mia ricerca alla vita, al vissuto per affondare sempre di più i piedi nella terra, nelle tradizioni della mia cultura contadina. Sentivo il bisogno di raccontare la mia storia e quella dei paesani, soprattutto delle donne che hanno fatto parte della mia formazione. Da ragazza non vedevo l’ora di affrancarmi da quel mondo. Il paese con le sue tradizioni, i suoi rituali mi stava stretto. Oggi Il mio desiderio è quello di riportare in vita, in qualche modo, ciò che detestavo e che ho paura di perdere.
C’è nella mia ricerca il desiderio di mettere al sicuro un mondo che si sta dimenticando.
Mantenere viva la memoria significa per me aver cura dei miei ricordi che non sono solo i miei ma di tutto un paese e di tutto una comunità.
“LA CASA CAPOVOLTA”, ph. credit archivio Contestabile
Il concetto di ‘memoria’ è strettamente imparentato con quello di ‘tempo’, presente anche nella mostra in corso – con Carola Masini – alla One Gallery a L’Aquila. Dunque cos’è il tempo per te?
Negli anni novanta ho realizzato un ciclo di opere da titolo: “Tutto questo io faccio nella grande reggia della mia memoria…” riprendendo un passo delle Confessioni di Sant’Agostino che fa riferimento non ad un tempo cronologico, diacronico ma ad un tempo psicologico. Il tempo della memoria è un tempo del presente, un tempo in cui convivono e si sovrappongono il presente del passato, il presente del presente, il presente del futuro. Potremmo anche parlare di un tempo liquido o di una memoria liquida che ci fa ricordare chi siamo, chi siamo stati ma anche chi vorremmo essere. La memoria può essere documento, storia ma anche bugia e raccontarci i nostri incubi, le nostre speranze, i nostri sogni. “Il sentimento del tempo” titolo di un’altra mia mostra, come l’arte, può essere menzognero e per questo può rivelare a noi stessi quello che a volte non abbiamo il coraggio di confessare.
“KIPUS DELLA MEMORIA”, lane, ceramica, legno, fili, materiale vario, anno 2006, foto Boys
Cucire piccoli frammenti di un quotidiano, talvolta indefinito, talvolta insignificanti, restituendo loro una nuova narrazione che attraverso l’arte tu consegni alla posterità, al futuro, sottraendoli all’oblio, non è, in fondo, un modo per riscattare la storia – con la s minuscola – di ognuno di noi dalla tirannia del tempo e della grande Storia?
Con il mio lavoro artistico viaggio per riaprire “la porta di casa”, scandagliare quel labirinto tortuoso che è la memoria per carpirne segreti e magie.
Non è la nostalgia a condurmi in questo NOSTOS quanto l’esigenza di riportare alla luce una realtà da indagare e capire.
Spesso sono le fotografie scattate da mio padre che mi ispirano e mi guidano in questo ritorno a casa. Mio padre contadino che aveva imparato le tecniche della fotografia nella guerra d’Africa ha lasciato un patrimonio straordinario di foto diventando attraverso le sue immagini testimone della memoria del paese: matrimoni, feste comandate, ritratti di famiglia…Legami per me importantissimi che cerco di far rivivere insieme a quel mondo semplice di campagna, fatto di piccole cose che ho apprezzato solo con il tempo. Mi piace raccontare la mia storia personale che coincide con la storia dei miei paesani e soprattutto delle donne la cui dedizione per la famiglia, la casa, il lavoro mi commuove.
Ho ristampato i negativi dei ritratti lasciati da mio padre e ho realizzato l’installazione “Il paese dei destini incrociati” (in un piccolo paese sono tutti parenti, compari, amici) e dai negativi dei matrimoni degli anni quaranta ho realizzato l’opera “Mio padre fissò un’emozione io vorrei restituirvi un sorriso” dedicata alle spose che nelle foto non accennavano sorrisi ma solo sguardi spaesati e in qualche caso spaventati.
Nell’installazione ricostruisco una sorta di “paese”, dove le spose sono ripresentate abbellite e impreziosite da ricami ed ornamenti. È il mio semplice omaggio.
In alcuni lavori ho usato lenzuola di canapa, coltivata e tessuta da mia madre o da altre donne del paese come nell’installazione “Il luogo, la mappa, le famiglie” in cui ricostruisco la rete dei legami tra le famiglie ricamando i cognomi più significativi del paese.
Con la mia creatività sogno di mantenere in vita un “piccolo mondo affettivo” rendendo giustizia ad una comunità semplice ma ricca di valori umani.
“L’ORTO DEL MIO CUORE”, rete, stoffa, carta, fili, tarlatana, cm 210×300, anno 2018, ph. credit archivio Contestabile
Tra gli elementi ricorrenti nelle tue opere ci sono le silhouette, figure delineate nettamente soltanto nei contorni che lasciano spazio ad ogni identificazione ed interpretazione: ombre, fantasmi o cos’altro?
Anche le silhouette che utilizzo vengono riprese da foto della mia famiglia. Sono di carta, di ceramica, di rame, di piombo, di ferro, di stoffa… Mi sono costruita una sorta di vocabolario affettivo in cui ogni figurina può essere concepita come una parola, un’unità, un personaggio che inserisco di volta in volta nel racconto sempre uguale e diverso che voglio presentare.
Ombre, fantasmi…? Non saprei dire. Sono sogni, apparizioni che tornano. Sono ricordi della mia infanzia e, come dici, proprio perché non hanno particolari, possono diventare anche ricordi per chi guarda.
“IL GIARDINO POETICO DI ELIO”, rete, stoffa, carta, filo, tarlatana, cm 110×115, anno 2017, ph. credit archivio Contestabile
Qual è la genesi dei tuoi lavori, dall’idea astratta fino all’opera concreta?
Parlare del proprio lavoro per un’artista non è mai semplice perché occorre da una parte distanziarsi per riflettere obiettivamente sulla propria ricerca e dall’altra provare a mettersi a nudo per dare espressione autentica e profonda a ciò che si è creato.
Spesso si lavora spinti da un’urgenza interiore che non ti fa soffermare a chiederti quali siano le motivazioni che ti spingono a cercare forme, materiali, soluzioni; è il lavoro stesso che apre la strada a percorsi che non avevi pensato ma solo intuiti mossi dalla necessità di fare, di raccontare, di esserci.
È solo successivamente, riflettendo su ciò che si è realizzato, che si intuiscono le motivazioni più profonde che ti hanno spinto ad operare in un certo modo.
Un’opera riuscita però va al di là delle intenzioni dell’artista e si carica di una pluralità di senso diventando un’opera aperta, come direbbe Umberto Eco. Un’opera vive e si trasforma continuamente nello sguardo di chi guarda che la carica del suo vissuto e della sua cultura. A me interessa emozionare lo spettatore e comunicargli qualcosa del mio mondo poi… mi auguro che chi guarda faccia “suo” ciò che io ho costruito.
Raccolgo oggetti, stoffe, lane, fili, foto e fiori secchi e di materiale diverso, bamboline, cianfrusaglie di vario genere e tutto quello che stimola la mia fantasia, che mi crea una suggestione o che mi ricorda un attimo, un pensiero. Il mio studio è una sorta di soffitta “incasinata”. Il materiale può restare mesi e anche anni nei cassetti o nelle ceste e poi all’improvviso mi prende l’urgenza di manipolare, unire, assemblare carte, fili, rete, garze con l’idea non precisa di cosa succederà. Aspetto. C’è un lungo tempo di attesa…
Poi inizia a farsi più chiara l’idea di come mettere insieme i tasselli e inizia il lavoro di assemblaggio con cui cucio e scucio il mio puzzle per far riaffiorare ri-narrando leggende, emozioni e brani della mia storia legata alla Storia collettiva; recupero frammenti di tempo per riacquistare il loro senso e costruire il tempo futuro.
“Il giardino” è un tema ricorrente nel mio lavoro.
È un giardino della memoria, un hortus conclusus in cui poter viaggiare nel profondo della mia interiorità e riflettere per costruire uno spazio intimo “tutto per me”, dove ritrovare i miei pensieri, i miei sogni, i miei affetti, le mie fantasie e, perché no, anche i miei incubi da esorcizzare e tradurre in positivo. Il mio giardino può essere di carta, di ceramica, di stoffa e ricami, di cuciti grossolani e preziosi; convivono in un apparente disordine oggetti di ogni genere, animali domestici, figure fantastiche e figure della mia storia personale riprese da foto della mia famiglia, il più delle volte scattate da mio padre e ristampate e rielaborate da me. È una sorta di “alfabeto simbolico”, una personale scrittura dove i segni e le immagini si ripetono disegnando e organizzando racconti sempre diversi che aprono pertugi verso casa, verso quella civiltà contadina delle leggende narrate davanti al camino durante le lunghe sere d’inverno. È un “giardino delle delizie”, locus amoenus, luogo della sperimentazione e del gioco, dove mettersi alla prova per riconnettere parti di sé dimenticate, dove cercare l’armonia attraverso la gioia del “fare” e del manipolare materiali diversi. È lo spazio dell’ascolto introspettivo in cui cogliere le risonanze interiori e perdersi attraverso l’incanto e, in una sorta di prodigio, ritrovarsi. Come Alice, mi piace immaginare un mondo surreale e magico, fantastico e reale nello stesso tempo dove possano convivere passato presente e futuro. Nell’orto del mio cuore ricucio momenti della mia infanzia, i giochi, i luoghi, i ricordi delle persone che mi hanno amato e che mi hanno aiutato a crescere e a diventare quella che sono. Tessera dopo tessera, come una sorta di mosaico, cerco di rimettere insieme i pezzi dei miei ricordi trapuntati e riannodati con fiori, uccelli, farfalle, cuori e qualche ‘mazzamurello’, personaggio spaventoso che rendeva però i nostri giorni di bimbi misteriosi e magici. Spazi ben delineati si alternano a spazi vuoti rendendo le mie opere luoghi in cui muoversi, fermarsi, viaggiare in lungo e in largo per ritrovare qualcosa di dimenticato o qualcosa di nuovo che faccia riflettere dando la possibilità di raccontarsi un po’. È proprio il bisogno di narrazione che mi porta a costruire tante piccole storie da ricucire in un personale universo. Stoffe, carta, velluto, rete, nastri, fili si alternano nella costruzione del mio puzzle. La tarlatana dipinta di nero, materiale che ho tanto usato in calcografia, mi aiuta a creare lo schermo giusto per velare e nascondere solo in apparenza le figure sottostanti. È la memoria che fa vedere e non vedere e che, a volte, riporta alla mente avvenimenti mai realmente accaduti, ma sognati e/o sperati.”[1]
[1] Testo di Lea Contestabile, FEMME ARTE EVENTUALMENTE FEMMINILE, a cura di Veronica Montanino e Anna Maria Panzera, Ed. Bordeaux, 2019
“VOLEVO UNA BAMBOLA”, vecchio lenzuolo di canapa, filo, garze, vecchi pizzi di abito nuziale, bambola, spille …, cm 100 x 230, anno 2019, ph. credit archivio Contestabile
Ricamo, aguglieria, tessitura: molte tecniche in ambito tessile sono state per secoli appannaggio delle donne. Questa dimensione femminile rientra nella poetica delle tue opere e in che modo?
“L’insegnamento di Anatomia Artistica presso l’Accademia di Belle Arti mi ha portato a confrontarmi con fenomeni di arte contemporanea come la Body Art. Artiste come Gina Pane, Louise Bourgeois, Sophie Calle ed altre mi hanno posto di fronte a tematiche ed a modalità artistiche che richiedevano la sfida di mettersi in gioco con tutto il proprio vissuto. Così, con il tempo, la dimensione femminile è diventata sempre più centrale e il mio sguardo si è focalizzato sulle pratiche espressive e comunicative, anche di quelle artigianali (cucito, il crochet, uncinetto, ricamo) delle donne.
Negli ultimi anni la mia ricerca dal titolo “ed io avrò CURA di te… KINTSUGI o la tecnica di valorizzazione della crepa” si è incentrata sul corpo nelle varie accezioni.
La ricerca è nata dal desiderio di esorcizzare in qualche modo la paura della malattia e di raccontare come la ferita possa diventare strumento di rinascita e di ricostruzione. Concepito non solo in senso fisico il corpo, fulcro dei processi di costruzione dell’identità femminile personale e collettiva, si è rivelato territorio privilegiato su cui le cicatrici scavano nel profondo creando l’opportunità di sperimentare la sofferenza come dono per meglio conoscersi; il dolore riporta alla realtà il proprio sé, diventa testimonianza di un vero vissuto, e l’arte si fa tramite per raccontare e meglio definire l’immagine di questa sofferenza.
Il corpo, memoria e custode personale, è anche forza simbolica e rituale collettivo per eccellenza, veicolo di tradizioni, di rapporti sociali, di convenzioni.
La fragilità emotiva delle opere e la solidale complicità con il mondo femminile ha trovato una corrispondenza nella scelta dei materiali utilizzati e nelle tecniche di realizzazione: fili, cuciti, plastiche trasparenti, teli tessuti da donne del paese, garze, cerotti…Le opere polimateriche, istallazioni, sculture e pitture, scatole votive si presentano come una sorta di invenzioni “sacre”, oggetti creativi con funzione apotropaica. Le installazioni risultano una specie di un unico grande ex-voto, un insieme di composizioni a loro volta risultate dall’unione di elementi diversi. Il desiderio è stato quello di tradurre in positivo, attraverso le metafore dell’arte, le esperienze dolorose della vita e condividerle con gli altri, in particolare con le altre donne.”[2]
Credo fortemente nella capacità delle donne di creare bellezza, armonia e pace tra gli uomini. Le donne hanno l’intelligenza e la forza di trasformare realmente il mondo. Purtroppo la storia ci ha insegnato che il genere femminile spaventa e per questo va tenuto sotto controllo.
Negli ultimi tempi avverto, con grande apprensione, una sorta di ritorno indietro rispetto alle battaglie e alle conquiste ottenute negli anni settanta. Al contrario trovo che il sistema dell’arte che ha sempre oscurato e ignorato le artiste ha oggi un’attenzione particolare verso il mondo femminile e guarda con grande interesse il lavoro delle artiste.
[2] Testo di Lea Contestabile, FEMME ARTE EVENTUALMENTE FEMMINILE, a cura di Veronica Montanino e Anna Maria Panzera, Ed. Bordeaux, 2019
Tu sei nata in una regione, l’Abruzzo, ricca di antiche abilità artigianali ma anche di storie e di tradizioni che, soprattutto le aree più interne, mantengono – almeno in alcuni aspetti – ancora vive e, anzi, ne riscoprono sempre più il valore. Quanto attingi da questo ricco patrimonio culturale e popolare e quanto ha influenzato il tuo lavoro artistico?
Sono nata in un piccolo paese di contadini della Marsica: Ortucchio, isolotto in mezzo al lago di Fucino prosciugato da Torlonia nel 1862. La mia è stata un’infanzia serena con tre sorelle con cui spesso, come è normale, ero in conflitto. Come ho già detto il paese mi stava stretto. Non vedevo l’ora di uscire e vivere in una grande città. Vivevo l’Università a Roma e l’Accademia a L’Aquila come occasioni di libertà e di allontanamento dai campi e dalla fatica che verificavo ogni giorno e sperimentavo quando anch’io, come le mie sorelle, venivo portata in campagna con le operaie per dare una mano. Ero un po’ insofferente. Mi ribellavo anche quando mia madre cercava di mandarmi con le mie sorelle e le altre ragazze del paese dalle suore per imparare a ricamare e prepararmi il corredo. Mi sono sempre rifiutata.
A differenza delle mie sorelle non so ricamare, ma in compenso oggi uso l’ago e il filo per creare segni con cui raccontare storie.
Preferivo disegnare ma soprattutto giocare con i miei amici realizzando piccoli spettacoli. I cortili e le aie erano le nostre location preferite; i carretti, le scale, le balle di paglia la nostra attrezzeria di scena. Ero prepotente: volevo fare la regista, la sceneggiatrice, la scenografa, la costumista, la prima attrice… Arrivavo (ancora oggi qualche amica mi prende in giro chiamandomi Mary Poppins) con una borsa piena di oggetti presi dal negozio dei miei, bigiotteria, sciarpe, oggetti vari. Se non riuscivo a fare ciò che volevo, rimettevo tutto in borsa e salutavo.
La sera davanti al camino mia madre, mentre sferruzzava, ci raccontava leggende varie, storie di fantasmi, di streghe, di donne/gatto con poteri strani.
Tutto questo, penso, sia nel mio lavoro.
“PICCOLA COPERTA”, anno 2005, foto Boys
Cosa significa lavorare a L’Aquila, una città che sta faticosamente ricucendo le sue ferite e ricomponendo il suo tessuto sociale?
L’Aquila ha subito un trauma terribile ma la creatività, a tutti i livelli, si è rivelata una terapia straordinaria.
Grande è stato il desiderio di raccontare per esorcizzare la paura e il dolore; ognuno lo ha fatto con il proprio linguaggio. Sono stati pubblicati tantissimi libri anche fotografici. Molti artisti, per ricordare e non dimenticare, hanno dedicato opere alla città e alle vittime.
Il tema del paese e della casa mi ha sempre affascinato diventando sempre più metafora identitaria dopo il terremoto. Ogni casa è un universo che tramanda, attraverso i molteplici oggetti la memoria di nonni, padri, figli: è luogo di affetti, di ricordi, di giochi, di tradizioni ma anche di conflitti e di desideri importanti nella costruzione dell’identità di ognuno di noi.
Ho realizzato molte opere dedicate al tema del paese e della casa e alle vittime del sisma. Nel 2011 per la Biennale di Venezia, a cura di Vittorio Sgarbi che aveva decentrato la Biennale nelle Regioni, ho realizzato due installazioni dedicate a L’Aquila: “3 e 32” dedicata alle vittime (309 tasselli bianchi di gesso e garza ingessata dalle forme diverse a seconda dell’età e del genere delle vittime) e “Il sogno della bella addormentata” presso il Duomo dell’Aquila devastato dal terremoto. 999 casette ricamate da me, dai miei studenti e dai bambini con cui lavoravo creavano una specie di città/coperta che copriva il corpo di una donna che sognava la ricostruzione addormentata su un altare della chiesa.
L’opera di cui vado più fiera è la realizzazione a Fossa (AQ), grazie alla solidarietà di molti, del Villaggio d’arte dei Bambini, un parco che si va arricchendo via via di grandi sculture site-specific al cui interno abbiamo costruito la sede del MuBAq – il Museo dei Bambini L’Aquila, nato come associazione senza scopo di lucro nel 1995 e che oggi si è arricchito di una straordinaria collezione d’arte internazionale.
L’anno scorso attraverso il Bando Restart siamo riusciti ad allestire il “GIARDINO DELLA MEMORIA- L’angolo delle piccole stelle” dedicato ai bambini morti nel terremoto. Il Giardino è abbellito da grandi sculture di 12 artisti straordinari. La mia opera è una grande scala di ferro alta quasi 6 metri ingentilita dalle siluette di bambini che, giocando, si avvicinano ad una casetta rossa e si elevano verso l’immensità del cielo.