Interviste

INTERVISTA CON RAMEKON O’ARWISTERS

English (Inglese)

*Foto in evidenza: Flowered Thorns #2, 2020/21, tessuti, ceramica dal programma di ceramica CSULB, perline, spille, 22x14x16 pollici, Per gentile concessione dell’artista e della Patricia Sweetow Gallery, San Francisco. Fotografia di David Schmitz

Traduzione a cura di Elena Redaelli 

Ramekon O’Arwisters, artista originario di Kernersville, Carolina del nord, ha conseguito un Master of Divinity (master in Teologia) presso la Duke University di Durham e attualmente vive e lavora a San Francisco, California.

Le sue opere sono narrazioni autobiografiche che parlano di emozioni, esperienze di dolore, frustrazione, accettazione, liberazione e coraggio di coltivare il pensiero critico, indipendente, lontano dall’ indottrinamento al pensiero collettivo.

Il percorso di formazione atipico seguito dall’artista che ha conseguito un master in teologia, è divenuto occasione e strumento per una riflessione più profonda sulla natura e sulla sostanza delle cose che, pur mantenendo le loro caratteristiche fenomeniche, possono mutare nel loro contenuto e senso grazie, in questo caso, all’azione dell’artista.

È così che le ceramiche rotte, frammentate e i tessuti di scarto vengono spogliati della loro funzione e rivestiti di un nuovo significato e ruolo. Nei primi lavori il tessuto avvolge, tiene unito e ripara ciò che è stato rotto, ma poi le opere crescono, si trasformano e acquisiscono una propria nuova identità, come lo stesso artista afferma: *“le opere si sono trasformate da qualcosa di rotto, che ha bisogno di essere riparato, a qualcosa di pienamente determinato e consapevole di sé”.

*CITAZIONE ORIGINALE: “the works have transformed from something broken, needing mending to fully determined and self-aware”.

https://ramekon.com/home.html

Flowered Thorns #8, 2020/21, tessuti, ceramica dal programma di ceramica CSULB, perline, spille, 20x19x14 pollici, Per gentile concessione dell'artista e della Patricia Sweetow Gallery, San Francisco. Fotografia di David Schmitz

Come ti sei avvicinato all’arte e quale percorso ha contribuito alla tua formazione?

Durante la mia crescita negli anni ’60 e ’70, disegnare e dipingere erano modi per nascondere i miei sentimenti e pensieri.

Era un modo per evitare che i miei genitori sapessero del mio essere queer. Sapevo che non avrebbero approvato un bambino omosessuale. Per evitare che chiedessero perché non ero interessato ad uscire con le ragazze, a fare sport o altre attività percepite come maschili, sapevo che mi avrebbero invece permesso di dipingere, disegnare e fare i compiti sul tavolo della cucina senza sollevare alcuna obiezione.

Nell’America nera di allora, i genitori dei piccoli ragazzi neri temevano per loro, specialmente a causa della brutalità della polizia. Così ero lì che dipingevo e disegnavo a casa, sotto gli occhi dei miei genitori, e loro sapevano che non andavo in giro con le ragazze, né prendevo droghe, né facevo a botte, né ero possibile carne da macello per la polizia. A quel tempo, disegnavo piacevoli fantasie e forme geometriche. Non erano affatto espliciti riguardo ai miei sentimenti gay. I disegni non avevano alcun contenuto; erano vuoti, senza contenuto, scialbi, ma carini.

Per la maggior parte della mia carriera artistica, ho soppresso più e più volte la mia voce di fronte a figure di potere dominanti il mondo dell’arte dei bianchi – curatori, galleristi, direttori di musei – presentandogli il mio lavoro e cercando la loro approvazione. Il mio lavoro è valido? È degno della vostra galleria? Sono abbastanza bravo?

Questo sistema non funzionava più per me. Quindi ho deciso di smettere di presentare il mio lavoro in giro. Pensavo che se non era successo niente fino a quel momento, dopo anni, allora non sarebbe mai successo. Il sistema dell’arte non era fatto per supportare e promuovere gli artisti di colore. Gallerie e musei servono solo per confermare e mantenere lo status quo.

Mi serviva tempo per riflettere, per distaccarmi e valutare, smettere di fare le stesse cose aspettando risultati differenti. Mi sono reso conto che tutti nella mia famiglia usavano stoffe e tessuti per esprimere la loro visione del mondo.

Mia madre e soprattutto mia nonna creavano quilt dai colori contrastanti e improvvisati come il jazz. Questi riflettevano la necessità dei neri negli Stati Uniti di usare il colore per alleggerire lo spirito in un ambiente ostile e di usare l’improvvisazione per risolvere problemi e situazioni in un mondo dove le opportunità erano limitate, e fuori portata a causa di un male chiamato razzismo.

Flowered Thorns #8-detail, 2020/21, tessuti, ceramica dal programma di ceramica CSULB, perline, spille, 20x19x14 pollici, Per gentile concessione dell'artista e della Patricia Sweetow Gallery, San Francisco. Fotografia di David Schmitz.

Nelle tue sculture, associ frammenti di ceramica ed elementi tessili, spogliando questi materiali della loro funzione originale. Puoi parlarcene? Che tipo di dialogo si stabilisce tra materiali così diversi?

Ceramiche rotte e scarti di tessuto sono materiali che vengono relegati ai margini; cose che vengono buttate via, detriti. Trattiamo questi oggetti nello stesso modo in cui la cultura americana tratta le persone emarginate.

Sono ignorati, abusati e considerati usa e getta. Nel mio lavoro questi materiali diventano rappresentazioni dell’esperienza deplorevole degli esseri umani che sono privi di diritti nel mito del sogno americano.

Flowered Thorns #7, 2020/21, tessuti, ceramica dal programma di ceramica CSULB, perline, spille, 28x14x12 pollici, Per gentile concessione dell'artista e della Patricia Sweetow Gallery, San Francisco. Fotografia di David Schmitz
Flowered Thorns #7-detail, 2020/21, tessuti, ceramica dal programma di ceramica CSULB, perline, spille, 28x14x12 pollici, Per gentile concessione dell'artista e della Patricia Sweetow Gallery, San Francisco. Fotografia di David Schmitz

Le tue opere parlano di identità, accettazione, inclusione, elaborazione del dolore e della paura. Cosa raccontano di te?

Il mio lavoro è il mio modo di esplorare questioni di identità, accettazione, inclusione, dolore e paura. È completamente autobiografico. Queste tematiche sono espresse nel modo più astratto, onirico e metaforico possibile, usando la ceramica rotta e le strisce di tessuto. Per fare questo, devo essere in grado di assumere uno sguardo distaccato e capire come tutti questi problemi stanno influenzando me e gli altri, ma non definiscono chi sono.

Imparo dalle mie esperienze, cercando una maniera creativa di esprimerle in modo che altre persone possano avere l’opportunità di accettare e imparare dal loro dolore, dalla paura e così via.

Flowered Thorns #5, 2020/21, tessuti, ceramica dal programma di ceramica CSULB, perline, spille, 22x17x13 pollici, Per gentile concessione dell'artista e della Patricia Sweetow Gallery, San Francisco. Fotografia di David Schmitz
Flowered Thorns #5-detail, 2020/21, tessuti, ceramica dal programma di ceramica CSULB, perline, spille, 22x17x13 pollici, Per gentile concessione dell'artista e della Patricia Sweetow Gallery, San Francisco. Fotografia di David Schmitz

Sei il fondatore di Crochet Jam, un progetto artistico che promuove una cultura creativa comunitaria. Puoi parlarci di questa iniziativa, da quale idea ha avuto origine e in cosa consiste?

Attraverso la mia pratica artistica Crochet Jam, basata sul lavoro con comunità locali, coinvolgo il pubblico proponendo di ripensare il ruolo dell’arte all’interno della comunità e il potere dell’arte nella società. Attraverso Crochet Jam, esploriamo come il fare arte in pubblico, in un ambiente accogliente e inclusivo libera, unisce e dà potere ai partecipanti perché non c’è nessun tentativo di dettare un processo creativo o giudicare il progetto finito.

Il mio obiettivo è quello di portare Crochet Jam ad un pubblico più ampio e coinvolgere le comunità che non sono percepite come parte della cultura dominante. Mi piacerebbe portare Crochet Jam alle comunità che si trovano all’interno del sistema carcerario, compresi i giovani nei centri di detenzione minorile dello Stato, nelle strutture di affidamento, nei centri di accoglienza per la violenza domestica, per i senzatetto, negli ospedali, presso i vigili del fuoco, nei dipartimenti di polizia, nelle università, nei municipi e nei centri di cura per anziani.

Crochet Jam parla di liberazione incorporando la tradizione popolare dell’arte dei tappeti di pezza realizzati all’uncinetto in un’attività libera e senza regole, basata sulla comunità, che abbraccia, include e trascende.

Crochet Jam è un progetto autobiografico. È un evento incentrato sulla liberazione, l’interazione sociale e la creatività tramite il quale trasformo tutto il mio dolore e le mie frustrazioni. Sento che per tutta la mia vita mi è stato detto cosa fare. Attraverso un processo di manipolazione che comprende la religione, il sistema scolastico pubblico e privato, la televisione, i film, la stampa, la pubblicità e altro; inculchiamo la moralità, l’etica e la visione del mondo determinate dalla cultura dominante. Niente di tutto ciò è pensato per dare potere e liberare l’individuo. È, anzi, progettato per manipolare il nostro modo di pensare e attualizzare un egemone conformismo attraverso l’indottrinamento. Il pensiero indipendente e critico è criminalizzato, bandito. Anche se il singolo individuo è in grado di acquisire certe conoscenze, esso viene emarginato e gli viene impedito di avere un impatto ampio.

Cheesecake #14, 2019, tessuti, ceramica dal programma di ceramica CSULB / 29 x 20 x 18 pollici Per gentile concessione dell'artista e Patricia Sweetow Gallery, San Francisco. Fotografia di David Schmitz

Nella mia azione di arte partecipata, Crochet Jam, non impongo il processo creativo. I partecipanti mantengono il loro potere decisionale. Non hanno bisogno di compiacermi, non ho alcuna autorità. Io sono solo la persona che promuove l’evento. Sono solo un uomo sulla strada, in piedi dietro un tavolo pieghevole coperto da strisce di tessuto strappato e tagliato. Insegno il punto base dell’uncinetto e strappo strisce di tessuto. Il tempo di apprendimento è di circa cinque minuti. Una volta imparata la tecnica, non ho più niente da insegnare. Allora, il tessuto diventa l’insegnante.

La parte difficile è quella di liberare il tessuto abbastanza da permettergli di diventare qualsiasi cosa voglia diventare. Non c’è un focus specifico o un prodotto finale. Quindi il tessuto può trasformarsi come vuole non preoccupandosi del risultato. Qualunque cosa diventi, la si accetta così com’è, senza giudizio. I partecipanti arrivano agli eventi di Crochet Jam credendo che insegnerò loro come fare un tappeto di pezza, una sciarpa o una presina. Io invece li porto in un viaggio completamente diverso – un viaggio ideato perché possano mettere in gioco la visione che hanno di loro stessi e al ruolo e allo scopo dell’arte come mezzo verso la liberazione, la libertà e la creatività. Li porto in un viaggio Li porto in un viaggio attraverso la mia infanzia, in cui faccio per loro quello che mia nonna ha fatto per me decenni fa. Permetto loro di avere un’esperienza dove possono tranquillamente fare errori, osservare, impegnarsi, esplorare in un modo che per molti di loro è nuovo.

Crochet Jam per me è un atto d’amore, permettendo alle persone di creare in un ambiente sicuro, dove possano infrangere le regole, senza essere giudicati, ampliando il loro senso di sé, la visione del mondo e la loro consapevolezza in modi positivi. Crochet Jam è la mia eredità famigliare, estende l’influenza benefica che la mia famiglia ha avuto su di me anche agli altri, allo straniero, a quante più persone possibile.

Crochet Jam è un’azione sovversiva realizzata in pubblico con estranei. L’evento rovescia l’idea di controllare e dettare il processo creativo. A livello concettuale i partecipanti sono incoraggiati ad accettare e riconoscere il loro potenziale creativo in un ambiente in cui non viene detto loro cosa fare e non vengono giudicati per quello che creano.

Il tessuto è solo un canale attraverso il quale avviene una potenziale trasformazione della prospettiva e del pensiero di ognuno.

In una società in cui i cittadini sono sotto costante sorveglianza, mantenere la propria autonomia è quasi impossibile. Gli individui non possono essere chi sono quando non vivono in un ambiente sicuro che permetta un’onesta espressione di sé. Dato che non si può presentare un sé autentico, allora non si può o è meno probabile riuscire ad esprimere idee o concetti contrari allo status quo.

Cheesecake #2, 2019, tessuti, ceramiche dal programma di ceramica CSULB / 24 x 18 x 11 pollici Per gentile concessione dell'artista e della Patricia Sweetow Gallery, San Francisco Fotografia di David Schmitz

Ci sono artisti o movimenti artistici che hanno influenzato la tua formazione?

Sì. Sono stato influenzato dai cesti di piume Pomo, dalla moda, dalle trapunte afroamericane e dalla scultura vernacolare afroamericana, in particolare dall’arte di Lonnie Holley, Thornton Dial e Bessie Harvey. Anche la ceramica africana e il vasellame mi affascinano.

Nella serie Mending, il tessuto all’uncinetto avvolge, copre e “contiene” i frammenti di ceramica con un intento di riparazione, dichiarato, per altro, dal titolo stesso delle opere.

Cheesecake #6, 2019, tessuti, ceramica dal programma di ceramica CSULB / 19 x 18 x 12 pollici Per gentile concessione dell'artista e Patricia Sweetow Gallery, San Francisco Fotografia di David Schmitz
Cheesecake #7, 2019, tessuti, ceramiche dal programma di ceramica CSULB / 20 x 15 x 11 pollici Per gentile concessione dell'artista e della Patricia Sweetow Gallery, San Francisco Fotografia di David Schmitz

In Cheesecake invece, sembra che i tessuti abbiano più lo scopo di vestire, adornare la ceramica, dando vita a figure vagamente antropomorfe (Cheesecake #9, #13, #2). Tra queste due serie di lavori, c’è un cambiamento nell’uso del tessuto e nel suo significato? Perché il titolo “Cheesecake”?

Crescendo a Jim Crow South durante il movimento per i diritti civili, avevo un rifugio sicuro, il lavoro di quilting che facevo con mia nonna dove ero “abbracciato, importante e speciale”.

Queste memorie della mia infanzia hanno ispirato una serie di sculture uniche realizzate all’uncinetto e in ceramica intitolate Mending. Utilizzando ceramica da casa o decorative, rotte o buttate via, ho combinato l’artigianato tradizionale in un arazzo tessuto, spogliando sia la stoffa che la ceramica della loro funzione predefinita.

Nella mia successiva serie di sculture intitolata Cheesecake, le opere si sono trasformate da qualcosa di rotto, bisognoso di essere riparato, a qualcosa di pienamente determinato e consapevole di sé. Essendo io nero e queer, la complessità del moniker Cheesecake, usato per oggettivare un uomo o una donna attraente e seducente, è per me qualcosa di famigliare. Invece di rifiutarlo lo abbraccio, sovvertendo la sua implicazione avvilente nel descrivere i miei così detti “oggetti”.

Le mie audaci opere “coming of age” combinando pizzi e tessuti impreziositi con ceramiche fornite da studenti e docenti della California State University, Long Beach, diventando ibridi scultorei che incarnano sia il pericolo che la seduzione. Le Cheesecake, completate nel 2019, sono minute e glamour.

Flowered Thorns #1, 2020/21, tessuti, ceramica dal programma di ceramica CSULB, perline, spille, 22x18.5x15 pollici, Per gentile concessione dell'artista e della Patricia Sweetow Gallery, San Francisco. Fotografia di David Schmitz
Flowered Thorns #1-detail, 2020/21, tessuti, ceramica dal programma di ceramica CSULB, perline, spille, 22x18.5x15 pollici, Per gentile concessione dell'artista e della Patricia Sweetow Gallery, San Francisco. Fotografia di David Schmitz

Flowered Thorns è uno dei tuoi lavori più recenti nati durante il periodo covid. Da quale riflessione è nato?

La mia nuova scultura, Flowered Thorns, si tuffa nell’abisso con grandi e taglienti frammenti di ceramica legati e annodati insieme, impreziositi da tessuto tagliuzzato. Si ergono a totem culturali, incarnando la foggia del drag, e unendola alla ricca storia del quilting afroamericano.

Questa serie è stata prodotta nel mio studio negli ultimi due anni, quando il COVID, l’ingiustizia razziale, il cambiamento climatico e l’imbroglio politico sono stati normalizzati.

Mentre ci sono numerose parabole su spine e rovi, una che ho imparato molto presto è la storia delle origini di Adamo ed Eva. Il racconto narrato in questa parabola presuppone che le spine non esistessero prima che Adamo soccombesse ad una Eva eroticizzata, la donna pericolosa del peccato originale. Che Eva abbia cambiato il corso della natura è stupefacente, ma oltre a Eva, c’è la questione delle spine. Ammettiamolo, le spine hanno una brutta reputazione, sono il simbolo del peccato, dell’illegittimità, della minaccia, dell’esclusione, del pericolo, del male – le guerre si combattono sulle spine. Così, tornando a Flowered Thorns, dove rovescio abilmente le ortodossie prevalenti con la mia convincente comunione di materiali opposti che coabitano con eleganza e grazia. La mia scultura amplifica un messaggio alternativo, le spine che mordono non sono la minaccia, ma la differenza liberatoria che conferisce scopo e significato. Ammettiamolo, le spine hanno una brutta reputazione, sono il simbolo del peccato, dell’illegittimità, della minaccia, dell’esclusione, del pericolo, del male – le guerre si combattono sulle spine. Così, torniamo a Flowered Thorns, mentre rovescio con destrezza le ortodossie prevalenti con la mia convincente comunione di materiali opposti che coabitano con eleganza e grazia. La mia scultura diffonde un messaggio alternativo, le spine che pungono non sono la minaccia, ma la differenza liberatoria che conferisce scopo e significato.

Flowered Thorns #2-detail, 2020/21, tessuti, ceramica dal programma di ceramica CSULB, perline, spille, 22x14x16 inch, Courtesy of the artist and Patricia Sweetow Gallery, San Francisco. Fotografia di David Schmitz
Flowered Thorns #2-detail, 2020/21, tessuti, ceramica dal programma di ceramica CSULB, perline, spille, 22x14x16 pollici, Per gentile concessione dell'artista e della Patricia Sweetow Gallery, San Francisco. Fotografia di David Schmitz

A quali progetti stai lavorando in questo periodo?

Attualmente, sto completando delle opere d’arte commissionate per la San Francisco Arts Commission e i Contemporary Jewish Museums.

Maria Rosaria Roseo

English version Dopo una laurea in giurisprudenza e un’esperienza come coautrice di testi giuridici, ho scelto di dedicarmi all’attività di famiglia, che mi ha permesso di conciliare gli impegni lavorativi con quelli familiari di mamma. Nel 2013, per caso, ho conosciuto il quilting frequentando un corso. La passione per l’arte, soprattutto l’arte contemporanea, mi ha avvicinato sempre di più al settore dell’arte tessile che negli anni è diventata una vera e propria passione. Oggi dedico con entusiasmo parte del mio tempo al progetto di Emanuela D’Amico: ArteMorbida, grazie al quale, posso unire il piacere della scrittura al desiderio di contribuire, insieme a preziose collaborazioni, alla diffusione della conoscenza delle arti tessili e di raccontarne passato e presente attraverso gli occhi di alcuni dei più noti artisti tessili del panorama italiano e internazionale.