Interviste

JANET CURRIER

English (Inglese)

Traduzione a cura di Elena Redaelli


*Foto in evidenza: Little Microbe, 2021. Scuba fibrefill riciclato. Immagine per gentile concessione dell’artista


Artista multidisciplinare, Janet Currier si è formata presso l’università di Leeds e ha ricevuto il suo MFA alla Goldsmiths University di Londra, città dove attualmente vive e lavora.
La quotidianità, il mondo interiore, le emozioni e più in generale, il vissuto personale, sono il punto di partenza della ricerca e dell’esplorazione di Janet Currier, il cui lavoro, come l’artista afferma , è fortemente autobiografico ma allo stesso tempo assume anche una valenza universale, poiché tocca temi condivisi come la malattia e la vulnerabilità del corpo, la cura, la maternità, la resilienza e la trasformazione.

Currier è stata vincitrice, nel 2017, del Warden’s Art Prize, il suo lavoro è conservato in varie collezioni private e pubbliche tra cui la Goldsmiths College Collection. Nel 2017 è stata insignita della prima Elephant Residency ai Griffin Studios. Recentemente è stata selezionata per il Denton Prize.

https://janetcurrier.com/

Viewing Bench - vista aerea, 2017. Stampa digitale su tessuto di cotone, cuscino di gommapiuma, MDF, vernice acrilica bianca. Immagine per concessione di Oscar Proctor 2017, copyright Janet Currier

Come ti sei avvicinata all’arte e qual è stato il percorso che ha contribuito alla tua formazione?

Faccio arte da quando ero bambina: nessuno della mia famiglia era un artista ma, da piccola, la mia babysitter mi introdusse alla pittura e al disegno e da allora ho continuato a creare. Ho conseguito il diploma di laurea all’università di Leeds. All’epoca, vi era un modo molto diverso di educare all’arte, c’era una forte attenzione alla storia dell’arte, alla teoria critica e al femminismo, e questo è stato molto formativo per me. Mi sono laureata negli anni ’80 con la missione, quasi evangelica, di utilizzare le mie capacità per la comunità. Ho lavorato con progetti basati sulla comunità e sui giovani e in seguito come artista educatore. Sono tornata seriamente alla mia pratica artistica solo verso i 40 anni e quando avevo quasi 50 anni ho iniziato a frequentare il master al Goldsmiths College di Londra. Ho scelto il Goldsmiths perché aveva un forte elemento di teoria critica. La questione del contesto e del contenuto concettuale del lavoro è sempre stata molto importante per me e volevo trovarmi in un luogo che mi fornisse un quadro adeguato all’apprendimento accademico e teorico da integrare nella mia pratica.

Chimera 1 e 2, 2020. Sedia da cucina riciclata, lana cotta, fiberfill riciclato, fibra di cocco e hessian. Immagine per gentile concessione dell'artista

Come e quando hai iniziato ad utilizzare il medium tessile nel tuo lavoro? In che modo questo materiale ti permette di esplorare temi e concetti intorno ai quali ruota la tua pratica artistica?

Da bambina avevo una macchina da cucire giocattolo ma mia madre, che confezionava abiti, mi ha sempre lasciato usare la sua macchina da cucire. Il mio approccio al cucito è cominciato allora. Realizzavo sia bambole di pezza che i loro vestitini. Non avevo modelli, non sapevo cosa stavo facendo e non mi interessavano le regole del cucito: era tutto molto libero, ma mi piaceva. Inoltre, ho realizzato molti oggetti tridimensionali in cartapesta o cartone. Non ho mai considerato questo come arte. Secondo la mia educazione l’arte consisteva nella pittura, nel disegno e nella scultura. Ritenevo che gli altri tipi di creazione fossero “artigianali” e in qualche modo meno validi dei disegni e dei dipinti che realizzavo.

Dopo essere diventata madre, ho iniziato a lavorare con soggetti legati alla casa, alla vita quotidiana, ai vestiti per bambini, alle tende, al percalle, alle lenzuola, ecc. Questi erano i soggetti principali dei miei dipinti. Ero interessata al modo in cui queste forme operassero a livello emotivo, al modo in cui parlassero di esperienze intime come il sonno, la cura dei bambini e la famiglia. Per la mostra del mio master ho iniziato a stampare degli elementi tratti dai miei dipinti, che ho poi trasformato nel cuscino per la mia panchina. Il processo di cucitura mi è piaciuto molto e mi ha riavvicinato al ricco bacino di conoscenze apprese da mia madre. In seguito, mi ha portato a voler imparare come realizzare le tappezzerie e all’utilizzo dei mobili come riferimento per esplorare il corpo e l’esperienza femminile in un contesto domestico.

Chimera 1, 2019-20. Sedia da cucina riciclata, lana cotta, fibrefill riciclato, cocco ed hessian. Immagine per gentile concessione dell'artista
Chimera 2 (vista posteriore), 2020. Sedia da cucina riciclata, lana cotta, fibrefill riciclato, cocco ed hessian. Immagine per gentile concessione dell'artista

Ho iniziato quasi per caso a realizzare sculture tessili autoportanti. Stavo installando in un posto dove avrei voluto appendere un grande quadro alla parete ma non mi era permesso e pensavo agli oggetti di Chris Ofili fatti con lo sterco di elefante. Volevo riferirmi a quel momento nella storia dell’arte e, come supposto per la mia grande tela, realizzare delle sculture morbide simili a un seno. Mi sono ritrovata con molte di queste sculture; mi interessava molto l’idea di come funzionassero come massa di oggetti morbidi. Il lavoro è cresciuto da lì – ora ho sacchi di queste palle soffici di varie dimensioni e materiali.

Mi è sembrata una rivelazione che mi ha spinto a tornare a lavorare con i tessuti. Quando realizzo queste forme mi sento in qualche modo liberata, è come se si connettessero a una parte di me più intuitiva, non verbale né fisica, dove non penso ma sento solamente. Mi chiedo se questo sia dovuto al fatto che il cucito è stato un luogo in cui, da bambina, mi è stato permesso di esplorare e creare senza interferenze, uno spazio che non ho mai sentito di avere nella pittura o nel disegno. Di sicuro sento che, quando lavoro in due dimensioni, i canoni della pittura mi fanno sentire più limitata e intimidita. A volte rimango legata a nodi concettuali riguardanti questioni narrative. Spesso, quando mi blocco con la pittura, come modo per progredire e dare un senso a ciò che sto cercando di fare passo alla realizzazione di opere tessili tridimensionali.

Malignant Nest (veduta dell'installazione), 2018. Inchiostro acrilico su tela, vinile e fiberfill, 165 x 180 cm. Immagine per gentile concessione dell'artista
Little Microbe, 2021. Scuba fibrefill riciclato. Immagine per gentile concessione dell’artista.
Fingerrest, 2020. Lana cotta e fibrefill riciclato. Immagine per gentile concessione dell'artista

Ma il lavoro tessile, i dipinti e i disegni sono tutti strettamente interconnessi. I miei lavori bidimensionali riproducono tessuti (qualsiasi cosa, dagli indumenti alle tende da ospedale) e spesso dipingo su poli-cotone stampato o rielaboro vecchi indumenti trasformandoli in pezzi ricamati. Il cucire mi sembra un processo molto simile a quello del disegno. Le mie sculture si innestano direttamente nel mio lavoro a due dimensioni, e compaiono nei dipinti e nei disegni che realizzo. Molti dei disegni sono caratterizzati da ampie campiture di segni ripetuti che intendono rappresentare delle cuciture. L’installazione di oggetti multipli richiama ancora una volta il disegno e la ripetizione dei segni.

Concettualmente, per me, tutto il lavoro riguarda l’essere un soggetto femminile (e talvolta materno). Il mezzo tessile, quindi, in un certo senso, sintetizza già una ricca storia del fare legata al genere, all’essere ragazza, all’essere incoraggiata a cucire e a lavorare a maglia e a sviluppare delle abilità in questi campi. La realizzazione di pattern, è per me, una profonda metafora del “lavoro materno”. Come il lavoro legato all’affettività, il cucito può essere noioso, monotono e scarsamente retribuito, ma richiede un’incredibile abilità e destrezza per essere eseguito.

Night Creeper 2 (disegni dal letto di un malato), 2021. Matita colorata su carta, 21 x 30 cm. Immagine per gentile concessione dell'artista
Overexpression, 2017. Acrilico su tela, 122 x 165 cm. Immagine per gentile concessione di Oscar Proctor 2017. Immagine per gentile concessione dell'artista
Shit storm, 2017. Acrilico su tela, 100 x 140 cm. Immagine per gentile concessione di Oscar Proctor 2017, copyright Janet Currier
Sampler 1, 2019. Inchiostro acrilico e gesso su tessuto di poli cotone stampato, 29 x 21 cm. Immagine per gentile concessione dell'artista
Plain Work 4 (2020). Inchiostro acrilico su carta acquerellata, 57 x 77 cm. Immagine per gentile concessione dell'artista

L’uso di forme corporee carnose, ripetute, incastrate e quasi schiacciate in piccoli spazi, sono un aspetto centrale del tuo lavoro. Queste sculture cosa raccontano, di cosa sono metafora o rappresentazione?

Per me funzionano su più livelli. Queste forme intendono rappresentare visivamente l’esperienza fisica del corpo schiacciato e confinato in procedure mediche. Rimandano anche al fatto che, in quanto donne, ci si possa sentire insignificanti o ci si debba adattare a uno spazio ristretto, non occupando troppo spazio – fisicamente, emotivamente, psicologicamente e professionalmente. Mi piace immergermi nel processo di installazione perché non so mai come andrà a finire. La realizzazione dell’installazione comporta una grande fatica fisica ma anche una sorta di lavoro intuitivo per riuscire a far combinare tutti i pezzi. Quindi, credo che ci sia anche la volontà di celebrare il modo in cui, come donne, dobbiamo reagire agli eventi prontamente, improvvisare ed essere piene di risorse per far funzionare le cose nelle nostre vite. Nei lavori c’è anche qualcosa sulla resilienza. Ho intitolato le prime due installazioni Pushback, un termine con una doppia accezione, ma che riguarda essenzialmente la resistenza e la lotta contro qualcosa di rigido e oppressivo.

Pushback 1, 2019. Installazione di 45 sculture morbide in scaffalature fisse. Immagine per gentile concessione di Gillies Sempel, copyright Janet Currier

Just one more little squeeze please Louise.  Puoi parlarci della genesi di questa opera? Perché questo titolo?

Questo lavoro mi frullava in testa da molto tempo e presto ne realizzerò un’altra versione che coinvolgerà altri mobili! Volevo che ci fosse un riferimento esplicito all’esperienza di una mammografia, ma anche all’idea che il soggetto sia rinchiuso e che il tentativo di confinarlo in qualche modo fallisca. Era quindi importante che le forme sembrassero traboccare e quasi scivolassero fuori dall’armadio, rendendo il contenitore instabile, come se tutto stesse per cadere o collassare.

Il titolo è un po’ una provocazione. Riferendosi alla mia opera, la gente parla spesso di Louise Bourgeois. Lei è sicuramente un’influenza importante, quindi ho voluto affrontare questo riferimento in maniera diretta nel titolo. Per quanto riguarda la parte “Just one more little squeeze please”, ho immaginato da un lato la voce dell’ecografista che stringe la lastra della mammografia (che è un’esperienza molto cruda, sgradevole e dolorosa), e dall’altro ho pensato al #Metoo e all’esperienza della coercizione maschile che purtroppo è così familiare a molte di noi.

Pushback 1-detail, 2019. Installazione di 45 sculture morbide in una scaffalatura fissa. Immagine per gentile concessione di Gillies Sempel, copyright Janet Currier
Pushback 2-detail, 2020. Installazione di 70 sculture morbide nella Light Vessel 21, Gravesend, Kent. Immagine per gentile concessione dell'artista

Quanto è autobiografico il tuo lavoro?

La maggior parte del mio lavoro è autobiografico. Per me il lavoro è uno spazio davvero unico e importante in cui posso elaborare e processare le cose che accadono nella mia vita. E non mi scuso per questo, né per il contenuto emotivo delle mie opere. Credo che il personale sia sempre politico e, di conseguenza, le mie esperienze verranno condivise. Quando le elaboro, magari a livello psicosociale, sto digerendo qualcosa anche per gli altri. Ma spero anche che ciò che sto esplorando o esprimendo risuoni con il pubblico, sia qualcosa a cui si possa riferire. Il mio lavoro parla di cose quotidiane che sono familiari alla maggior parte di noi: l’esperienza della malattia e delle cure mediche, del corpo deperibile, che perde liquidi; il disordine, la fatica e la meraviglia di essere madre e lo stress di dover tenere tutto insieme in un mondo molto precario.

Just one more little squeeze please Louise, 2022. Installazione composta da un armadio di legno usato, scuba, lana cotta, vello, fiberfill riciclato, tessuto di recupero e scarti di gommapiuma, grafite e carta carbone, circa 178 x 67 x 50 cm. Immagine per gentile concessione dell'artista

Ci sono artisti contemporanei che senti vicini alla sua ricerca e al suo linguaggio?

È un momento molto eccitante per l’arte. Sembra esserci un’esplosione di artisti che lavorano nel tessile e nella ceramica, e anche la scena pittorica è molto vivace.  Inoltre, sembra più facile trovare artisti che esplorano la maternità e il femminile e i temi su cui lavoro. Adoro le sculture di mobili decostruiti e imbottiti di Hermione Allsopp perché esprimono in modo spettacolare una sorta di femminilità limitata. Ammiro il lavoro di Alice Mahler, i dipinti di Kinke Kooi e sono una grande fan di Ellen Gallagher. Ho apprezzato molto la recente mostra di Lubaina Himid alla Tate di Londra. Mi ha fatto riconsiderare la pittura narrativa e in particolare la storia e l’uso dei tessuti.  Emma Talbot è un’altra grande influenza. Anche lei lavora con i mezzi dell’acquerello e del tessuto. Il modo in cui esplora la narrazione e l’esperienza vissuta è davvero stimolante e innovativo.

Sono molto fortunata di avere, qui a Londra, una grande rete di artisti che, anche se non lavorano esattamente nella stessa area di ricerca o di linguaggio, sicuramente influenzano e alimentano il mio lavoro. Questa sensazione di comunità e di potenziale fertilità reciproca è davvero importante per la mia pratica.

Just one more little squeeze please Louise, 2022 (dettaglio). Installazione composta da un armadio di legno usato, scuba, lana cotta, vello, fiberfill riciclato, tessuto di recupero e scarti di gommapiuma, grafite e carta carbone, circa 178 x 67 x 50 cm. Immagine per gentile concessione dell'artista

C’è un progetto, un lavoro che è nei tuoi pensieri e che non hai ancora avuto modo di realizzare?

Ho pensato molto alla creazione di stanze come modo per combinare il disegno/pittura e la scultura in un’unica opera. Nei miei progetti, cerco sempre di trovare un diverso tipo di struttura narrativa e mi sembra che l’assemblaggio possa essere un modo per aprire possibilità e, in qualche modo, dire di più senza che il lavoro diventi troppo didascalico. Così ho finalmente iniziato a realizzare i disegni di carta da parati a cui pensavo da tempo. Ho in progetto altri lavori imbottiti e ho una pila di mobili recuperati e conservati nel mio deposito su cui devo lavorare. Sto preparando una mostra personale per l’anno prossimo, quindi c’è molto da fare!

Lesion (disegni da un letto di un malato), 2021. Filo da ricamo sul pigiama di cotone, 23 x 30 cm. Immagine per gentile concessione dell'artista
Formation (disegni dal letto di un malato), 2021. Filo da ricamo su pigiama di cotone, 23 x 30 cm. Immagine per gentile concessione dell'artista

Maria Rosaria Roseo

English version Dopo una laurea in giurisprudenza e un’esperienza come coautrice di testi giuridici, ho scelto di dedicarmi all’attività di famiglia, che mi ha permesso di conciliare gli impegni lavorativi con quelli familiari di mamma. Nel 2013, per caso, ho conosciuto il quilting frequentando un corso. La passione per l’arte, soprattutto l’arte contemporanea, mi ha avvicinato sempre di più al settore dell’arte tessile che negli anni è diventata una vera e propria passione. Oggi dedico con entusiasmo parte del mio tempo al progetto di Emanuela D’Amico: ArteMorbida, grazie al quale, posso unire il piacere della scrittura al desiderio di contribuire, insieme a preziose collaborazioni, alla diffusione della conoscenza delle arti tessili e di raccontarne passato e presente attraverso gli occhi di alcuni dei più noti artisti tessili del panorama italiano e internazionale.