The New York Times: La Fiber Art viene finalmente presa sul serio
Immagine in evidenza: Sheila Hicks, photographed at her studio in Paris on June 21,2023. Credit Antoine Henault. Copyright NY Times
Fonte: NEWYORK TIMES, per la rubrica ARTE E LETTERE:
Rimaste a lungo nello spazio liminare tra l’artigianato e qualcosa di più prestigioso, le opere di filo e tessuto stanno raggiungendo un nuovo riconoscimento istituzionale.
NEL FEBBRAIO DEL 1969, presso una finestra del primo piano che dava sulla 53esima strada, il Museum of Modern Art di New York installò un’opera di un’artista allora 34enne di nome Sheila Hicks, intitolata “The Evolving Tapestry: He/She” (1967-68). Realizzata con più di 3.000 “code di cavallo” di filo di lino, come le chiamava l’artista, cucite insieme e impilate l’una sull’altra, a prima vista sembrava qualcosa che si potesse trovare in un negozio di tessuti. Non è né una scultura tradizionale né una pittura, ma evoca entrambe le cose, un oggetto monumentale fatto con i materiali più umili.
La mostra che presentava l’opera di Hicks, “Wall Hangings”, era un raro riconoscimento istituzionale americano di artisti che realizzano opere ambiziose in fibra e che hanno ampliato l’idea di cosa possa essere l’arte. La maggior parte degli artisti inclusi erano donne. Ma la mostra ricevette una sola recensione importante, nella pubblicazione di nicchia Craft Horizons, a firma della scultrice Louise Bourgeois. All’epoca, Bourgeois, che aveva esposto anche al MoMA nel 1969, realizzava sculture voluminose in bronzo, gesso e marmo che facevano riferimento al corpo umano. Pur essendo cresciuta lavorando nello studio di restauro di arazzi dei suoi genitori, fuori Parigi, scrive che, a differenza di un dipinto o di una scultura, che “richiedono molto all’osservatore e allo stesso tempo sono indipendenti da lui”, queste opere “sembrano più coinvolgenti e meno impegnative”. Se dovessero essere classificate, si collocherebbero a metà strada tra le belle arti e l’arte applicata”. Raramente si liberano dalla decorazione”, conclude l’autrice, utilizzando quello che potrebbe essere il termine critico più offensivo dell’arte.