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“La ragione nelle mani” – la mostra di Stefano Boccalini a Ginevra

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di Lorella Giudici*

Sfoglio il catalogo della mostra che Stefano Boccalini (Milano 1963) ha in corso alla Maison Tavel/Musée d’Art e d’Histoire di Ginevra (mostra che rimarrà aperta fino al 27 giugno) e vedo decine di fotografie che inquadrano mani operose, immagini di donne che tessono pezzotti di lana cotta su vecchi telai o che ricamano a punto intaglio un candido drappo di lino. Ci sono scorci di laboratori dove alcuni uomini intrecciano rametti di salice e midollino oppure scavano con sgorbie e punteruoli nel duro legno di noce. Al centro di quelli scatti c’è tutto il sapere di un artigianato antico e che ora rischia di perdersi, sopraffatto da una tecnologia fredda e piatta, fagocitato da un mondo che ama la velocità e che non comprende la poesia che c’è nelle lunghe ore trascorse in un dialogo ininterrotto con la materia, nella ritualità atavica di gesti capaci di forgiare l’arte della tradizione. Mani giovani affiancano mani esperte in un gioco di abilità e di sapienza. Come in un nuovo Bauhaus, Boccalini ha ridato vita a una comunità dove le tradizioni non vogliono essere sinonimo di nostalgia ma, come dice l’artista stesso, “una porta di accesso al futuro”. Infatti, è forse riduttivo circoscrivere il progetto di Stefano alla bella mostra elvetica (tutta meritata come vincitore dell’ottava edizione dell’Italian Council, un programma a supporto dell’arte contemporanea italiana nel mondo, promosso dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo e realizzata in collaborazione con Art for the World Europa), perché il lavoro che vi è esposto è il frutto di un lungo percorso fatto con tutta una comunità, quella di Monno, in Val Camonica.

La ragione nelle mani – Dadirri, Anshim, Friluftsliv, Stefano Boccalini, 2020, lino, punto e intaglio (ricamo), 100 x 140 x 5 cm
© Christian Tasso

L’opera ha preso il via con un laboratorio che ha coinvolto i bambini del paese, cui è stato raccontato il significato di circa cento parole prese dalle tante minoranze linguistiche del mondo e intraducibili perché in un corrispettivo univoco nelle altre, parole che possono essere solo spiegate: ad esempio dadirri che per gli aborigeni australiani significa quieta contemplazione e ascolto profondo della natura. Insieme ai bambini ne sono state poi selezionate circa venti che hanno a che fare con il rapporto tra uomo e natura oppure con le relazioni che ci sono tra esseri umani. Infine i lemmi sono stati sottoposti agli artigiani del luogo per capire quali potessero essere i più adatte ad essere trasformati dalle loro sapienti mani in manufatti artistici. Ne sono state scelti nove, con idiomi che vanno dal finlandese all’hawaiano, dall’arabo al coreano e sono diventati il materiale su cui gli artigiani hanno lavorato, affiancati ciascuno da due giovani apprendisti selezionati con un bando promosso dalla Comunità Montana. Insomma, un vero e proprio campus creativo pronto a fare parole con le cose in un’epoca in cui “le parole sono diventate un vero e proprio strumento di produzione e di captazione di valore economico – spiega Boccalini -, e hanno assunto una dimensione sempre più importante all’interno del contesto sociale”.

Stefano Boccalini, 2020, La ragione nelle mani – Orenda, lana cotta, Pezzotti (tappeti), 60 x 235 cm. ©Christian Tasso

Stefano Boccalini, 2020, La ragione nelle mani –  Balikwas /Sisu, lana cotta, Pezzotti (tappeti), 60 x 235 cm. ©Christian Tasso

In definitiva la mostra ginevrina, curata da Adelina von Fürstenberg, non solo è espressione culturale e manuale di una comunità ecosostenibile, ma è soprattutto il risultato del cammino artistico di Stefano Boccalini che da sempre si muove tra arte concettuale e arte pubblica e che ancora una volta ha dimostrato quanto possa essere radicato e fondamentale il rapporto tra l’artista e la società in cui vive.

Nelle sale della Maison Tavel sono quindi esposti gli oggetti nati da quest’esperienza: un raffinato ricamo bianco con tre parole trapunte e montato come un quadro; due parole intagliate nel legno di noce con geometrica precisione; cinque lettere intrecciate come fossero cestini o gerle a comporre la parola ohana, che in hawaiano significa famiglia, ma includendo nel nucleo originario tutti, compresi gli amici e i parenti; infine tre pezzotti, ovvero tre tappeti tipici della Valle, fatti con tessuti lavorati a telaio manuale, su ciascuno dei quali è leggibile una scritta nera su fondo azzurro. Tra le tre mi colpisce orenda che, se solo avesse una “r” in più per noi avrebbe un’assonanza negativa, che per gli indigeni nordamericani è invece la capacità umana di cambiare il mondo contro un destino avverso.

*LORELLA GIUDICI (1965). È professore di storia dell’arte contemporanea all’Accademia di Belle Arti di Brera di Milano. Dopo una laurea in Lettere Moderne con indirizzo storico-artistico all’Università Statale di Milano e una in pittura all’Accademia di Belle Arti di Brera, cura mostre e si occupa dell’arte tra ottocento e novecento, con particolare interesse al periodo tra le due guerre. È membro del comitato scientifico della Fondazione Remo Bianco, della Fondazione Sangregorio e dall’Archivio Dadamaino. Tra le tante pubblicazioni e curatele si ricordano: Edgar Degas. Lettere e testimonianze, Abscondita, Milano 2002; Medardo Rosso. Scritti sulla scultura, Abscondita, Milano 2003; Giorgio Morandi. Lettere, Abscondita, Milano 2004; Remo Bianco. Al di là dell’oro, mostra al Complesso del Vittoriano, Roma, dicembre 2006-gennaio 2007, catalogo Silvana Editoriale, Milano 2006; Gauguin. Noa Noa e lettere da Thaiti (1891-1893), Abscondita, Milano 2007; Lettere dei Macchiaioli, Abscondita, Milano 2008; La Giostra dell’Apocalisse, mostra alla Rotonda della Besana, Milano 2008, catalogo Silvana Editoriale; Giuseppe Ajmone. Gli amici di Corrente e il Manifesto del Realismo, Fondazione Corrente, Milano 2018; Remo Bianco. Le impronte della memoria, Museo del ‘900, Milano, catalogo Silvana Editoriale, Milano 2019.