L’intensità del gesto creativo nelle architetture tessili di Chiharu Shiota
Traduzione a cura di Marina Dlacic
Chiharu Shiota, artista di origine giapponese nata ad Osaka nel 1972, vive e lavora da molti anni a Berlino.
I suoi lavori, esposti in mostre personali e collettive, sono stati ospitati in prestigiose istituzioni artistiche e museali internazionali e nel 2015 l’artista ha rappresentato il Giappone alla 56a Biennale di Venezia.
Le opere di Shiota spaziano tra una molteplicità di medium quali scultura, pittura, performances, video e fotografia; ma l’artista è nota al grande pubblico internazionale soprattutto per le sue enigmatiche e contemplative installazioni in filo che disegnano gli spazi creando ambientazioni temporanee, spirituali e coinvolgenti, complesse trame tridimensionali di intrecci e nodi che danno vita a transitorie architetture.
La ricerca introspettiva è il fulcro intorno al quale ruotano tutti lavori dell’artista, esplorando i temi universali dell’esistenza, della morte, della solitudine e della memoria con un approccio meditativo che permette allo spettatore di entrare in contatto con l’opera e il suo creatore.
Beyond Memory”, 2020, Installation: wool, paper, Centro Cultural Banco do Brasil, São Paulo, Brazil, Photo by Atelier Chiharu Shiota, © SIAE, Rome, 2020 and the artist
Chiharu, puoi parlarci di te e della tua storia di artista?
Quando ero un bambina, desideravo diventare una pittrice, ma quando dipingevo, i miei lavori sembravano opera di qualcun altro, invece io volevo che il mio lavoro fosse personale. Ho smesso di dipingere e sono passata alle installazioni. Sono in Germania dal 1996 e qui si svolge la mia pratica artistica. Mi sento come se fossi sempre tra due paesi, la Germania e il Giappone. Molti dei miei lavori hanno il tema della morte e della vita. Mi interessa l’esistenza umana. Ci sono molte domande nella vita, ma nessuna risposta esatta.
I tuoi lavori spaziano dalla scultura, al disegno, alla pittura e alle installazioni in filo. Il filo è presente anche in alcune delle tue sculture, come “State of Being (Dress, Key)”. Quando e perché hai iniziato ad utilizzarlo come medium nelle tue opere e quali sono le potenzialità espressive che percepisci essere presenti in esso?
Studiavo al dipartimento di pittura, ma al secondo anno mi sono sentita limitata dalla tela bidimensionale, così ho iniziato a usare materiali diversi come l’acqua, la terra e il fuoco. Ad un certo punto ho raccolto del filo e ho iniziato a disegnare nello spazio tridimensionale. Un singolo filo è come una linea in un dipinto. Il filo può creare un’ambientazione; io lavoro nello spazio e le persone lo percepiscono immediatamente quando entrano. Possono avvertire cosa c’è dietro l’opera d’arte – ne sentono il significato profondo.
Molto spesso all’interno delle complesse trame che fanno parte delle tue installazioni, sono inseriti semplici oggetti di uso quotidiano, a volte sono sospesi tra i fili. Qual è il loro ruolo all’interno dell’opera?
Io uso sempre vecchi oggetti che qualcuno usava in passato, perché in questi oggetti rimane molta memoria. Anche se non ho conosciuto il proprietario di questo oggetto, posso percepire la sua presenza nelle scarpe, nelle chiavi, nei letti e nei vestiti. Questo è il tema del mio lavoro “esistenza nell’assenza”.
Le tue maestose e intricate installazioni, con spazi saturi di intrecci e nodi, con l’uso di un colore unico e intenso, stimolano nello spettatore un forte impatto emotivo e sensoriale. Certo, ognuno interpreta ciò che osserva secondo il proprio punto di vista e la propria esperienza. Ma se potessi in qualche modo trasmettere l’interpretazione delle tue opere, cosa vorresti che lo spettatore vedesse nelle tue installazioni?
Lo spettatore può sentire ciò che vuole quando entra negli spazi che creo. Non ci sono regole su come voglio che veda il mio lavoro. Perché un artista non ha risposte particolari – solo domande, quindi è importante come lo spettatore sente.
Crei le tue opere seguendo un progetto preciso o le realizzi sul momento, lasciandoti guidare dal tuo istinto? Quali sono le sfide che ti trovi ad affrontare quando sei di fronte a un grande spazio in cui costruire le tue tessiture?
Entrambe le cose. Dunque, soprattutto per quanto riguarda le mostre personali sono abbastanza libera, visito lo spazio e immagino cosa posso fare. Quando entro nello spazio, mi sembra di trascendere in un’altra dimensione. In seguito, disegno alcuni schizzi e discuto con gli organizzatori cosa potrebbe essere possibile.
Ma per una mostra collettiva, il curatore ha già creato un tema. Devo lavorare sul concetto della mostra collettiva.
Creare un’opera in un grande spazio è molto difficile. Se mi trovo in una chiesa alta 50 metri – è una sfida perché non ho mai fatto niente del genere prima d’ora, come nel 2018 a Le Havre. Volevano che creassi un’opera per la Chiesa di St. Joseph. Riuscire a farlo sembrava impossibile. Non si poteva fissare alcun filo alle pareti a causa della conservazione storica. Ho avuto molti colloqui con i tecnici e ho dovuto creare qualcosa che non avevo mai fatto prima.
“Accumulation of Power”, 2017, Installation: metal rings, red wool, A Summer in Le Havre: 500th Anniversary of Le Havre, St. Joseph, Le Havre, France, Photo by Philippe Bréard © SIAE, Rome, 2020 and the artist
Qual è il destino delle tue installazioni alla fine di una mostra? Saranno distrutte?
Dopo la mia mostra, l’installazione viene tagliata e distrutta, ma rimane nella memoria del visitatore.
Come è evoluto il tuo lavoro nel corso degli anni? Ci sono differenze stilistiche, estetiche o concettuali importanti tra i tuoi primi lavori e quelli più recenti?
Il concetto è lo stesso. Il mio tema è sempre “l’esistenza nell’assenza” e lavorare con la memoria. Tutti i miei lavori hanno concetti simili. Per esempio il mio lavoro video “How did you come into the world? (Come sei venuto al mondo?)” era realizzato con un mezzo molto diverso, ma il tema era comunque la memoria. La prima memoria che hai avuto. Anche il video “About the Soul” parlava della morte e dell’esistenza, quando il corpo muore, dove vai?
Lavoro sempre con la memoria umana. La memoria esiste ma non la si può toccare. Se qualcuno muore, ne rimane una memoria molto forte e anche se non c’è più nessuno, ti senti come se questa persona fosse ancora presente. Il tema del mio lavoro è “l’esistenza nell’assenza”.
Tra le tue opere ce n’è una in particolare che ti rappresenta maggiormente e alla quale sei particolarmente legata? E invece tra le tante opere che hai creato nel corso degli anni, ce n’è una in cui non ti riconosci e che senti distante dal tuo attuale stile artistico?
L’installazione “The Key in the Hand” alla Biennale di Venezia del 2015 è stata davvero speciale. È stato un onore rappresentare il Giappone, soprattutto perché vivevo già da 18 anni in Germania. Le barche veneziane navigavano attraverso il filo di lana rossa e nell’installazione erano state inserite 180.000 vecchie chiavi. La maggior parte delle persone ricorda questa installazione quando pensa al mio lavoro.
Tutto ciò che faccio è nuovo, non sento alcuna distanza.
“The Key in the Hand”, 2015, Installation: old keys, old wooden boats, red wool Japan Pavilion, 56th International Art Exhibition—La Biennale di Venezia, Venice, Italy – Photo by Sunhi Mang, © SIAE, Rome, 2020 and the artist
A cosa stai lavorando in questo momento? Vuoi parlarci dei tuoi progetti in corso e delle prossime mostre?
Al momento ho due mostre in Corea del Sud. La mia installazione “Living Inside” alla mostra collettiva “OH! My City” al Paradise Art Space di Incheon e la mia personale “Between Us” al Gana Art Center di Seoul. All’interno dell’installazione “Between Us“, ho messo 30 sedie – ogni sedia rappresenta una singola persona, c’è distanza tra di esse, ma il filo rosso le collega. L’installazione sembra ispirata a Covid-19 proprio per la distanza tra le sedie, ma non è stata una mia idea, è solo una somiglianza.
Infine il prossimo autunno è prevista una mostra al Museo d’Arte Contemporanea in Vietnam, ma non posso fornire dettagli fino a quando non lo annunceranno ufficialmente.