PAOLA PAGANELLI
*Foto in evidenza: Still Life With Cats 2019 Textile collage and hand embroidery on linen fabric, silk threads, cotton batting; unique 32 x 32 inches (81 x 81 cm). Detail. Copyright Clint Roenisch Gallery
Una ricerca lunga quarant’anni ha condotto Paola Paganelli fino alle installazioni più recenti in cui la tensione tra pieni e vuoti dà voce non solo a una indagine interiore alimentata dal silenzio che avvolge il suo studio nella campagna ferrarese e che l’artista prosegue da tempo, ma anche a una pluralità di riflessioni sul rapporto tra natura e cultura, tra storia e mito, fino ad esplorare il significato di termini in antitesi come rispetto e sfruttamento e i confini che ne delineano il perimetro di definizione.
Paganelli è un’artista che ha – per indole personale e caratteriale – nel ‘fare’ e nello ‘sperimentare’ la cifra pressoché esclusiva della sua pratica artistica – anche a discapito di una presenza espositiva regolare e continuativa. Negli anni recenti ha esposto, tra l’altro, con la personale al Museo MAGI di Pieve di Cento nel 2019. Dal 2018 ha allestito installazioni ambientali diffuse nella campagna ferrarese. Nel 2022 a seguito della partecipazione alla mostra collettiva “The Soft Revolution” realizzata nell’ambito del Salone Italia per le celebrazioni del 25° anniversario del WTA World Textile Art al Museo del Tessile di Busto Arsizio, una sua opera è entrata nella collezione permanente delle Civiche Raccolte d’Arte di Palazzo Marliani Cicogna e qui esposta in occasione della mostra temporanea “Spirito: oro e luce”. Oggi vive e lavora a Bondeno.
Artisti si nasce o si diventa, Paola? E nello specifico quando, perché e come hai iniziato a “fare arte”?
Basandomi unicamente sul mio percorso artistico, posso affermare che artisti si diventa, almeno in larga misura. Credo, tuttavia, che abbia agevolato il mio approccio all’arte, l’ambiente in cui ho vissuto, in particolare la presenza di uno zio fotografo e pittore dilettante e di una nonna sarta. Come talento naturale, patrimonio tra l’altro di molte donne, penso di aver ereditato semplicemente una certa intelligenza delle mani, unita, spero, a quella del cuore.
Sono nata in un piccolissimo paese di campagna in provincia di Ferrara, nel primo dopoguerra, da una famiglia di origini umili ma molto attiva nel settore dell’artigianato che, a quei tempi e per quei luoghi, rappresentava la massima espressione di creatività. Sembravo anch’io destinata a diventare sarta come la nonna o parrucchiera come la mamma, ma queste donne così all’avanguardia seppur con poca cultura, mi hanno indirizzata invece verso un percorso di studi che, a loro parere, mi avrebbe garantito maggiore sicurezza economica. Nonostante avessi già dimostrato predisposizione per l’arte, per un assurdo gioco del destino mi sono ritrovata a 19 anni con un diploma di perito aziendale e un posto di impiegata presso il mio Comune.
Per diversi anni, l’arte è rimasta solamente un sogno, una possibilità sfumata in nome di una stabilità lavorativa che però soffocava quel bisogno estetico e creativo in me molto presente. Raggiunta la piena maturità, questa necessità è diventata sempre più pressante e ho deciso pertanto che era venuto il tempo di iniziare a “fare arte”, consapevole che la strada sarebbe stata tutta in salita, non avendo soprattutto alcuna preparazione accademica, cosa che allora ritenevo indispensabile per diventare artista. Guardando il percorso scolastico di molti artisti famosi, col tempo ho cambiato idea. Certo avevo bisogno di studiare, di osservare, di viaggiare, di visitare mostre e musei, di conoscere altri artisti, cosa che negli anni ho fatto al massimo delle mie possibilità e capacità.
Facendo leva unicamente su una grande volontà e una forte motivazione interiore, “la sartina” di un tempo, quella che aveva imparato a cucire, a rammendare, a fare la maglia, con un certo timore ha preso in mano un filo e come davanti ad un immaginario telaio, ha iniziato a tessere la sua tela che, dopo 40 anni, non è ancora terminata.
Oggi è qui nel fondo scuro e umido di questa terra padana che hanno radici le mie opere. Le creo e le conservo in un’antica casa-studio nella campagna ferrarese, poco distante dal Po, dove regna quiete e silenzio, indispensabili alla mia arte.
Il tuo percorso artistico si è sviluppato nell’ambito della scultura e della fiber art, un linguaggio che ti ha portato a sperimentare anche materiali alternativi a quelli tessili più tradizionalmente utilizzati. Da dove nasce questa necessità della tridimensionalità e, soprattutto, come sei arrivata ad utilizzare i fili?
Come capita a chi, come me, ha avuto un approccio all’arte come autodidatta, ho iniziato a disegnare su fogli e fogli di carta che poi in gran parte distruggevo, oppure a creare figure più o meno astratte, spesso con l’aggiunta di fili, colle, tessuti mescolati a smalti sintetici o acrilici, a volte su spessi cartoni o su tele, per lo più ricavate da vecchie lenzuola, nella consapevolezza che stavo semplicemente sondando le mie capacità tecniche ed espressive, niente di più. In quegli anni, parlo degli anni Settanta, in Italia si avvertiva un grande fermento artistico culturale che toccava soprattutto le grandi città ma anche la mia Ferrara e io ne siamo state in qualche modo influenzate, nonostante vivessi nel mio paese di campagna, in quasi totale isolamento.
Questo lavoro durato molti anni, ha fatto emergere, via via, la mia propensione a rendere materiche le superfici, nonché la difficoltà a racchiudere il mio immaginario nello spazio limitato di un foglio o di una tela. È nata così la necessità di misurarmi con la tridimensionalità che ha preso slancio, nei primi anni ’90, quando ho avuto finalmente a disposizione uno studio molto grande, quello in cui ancora lavoro, e quando, ancora abbastanza giovane, ho potuto lasciare il mio impiego presso il Comune. È stato questo il momento in cui mi sono resa conto che forse il mio sogno di diventare artista si sarebbe potuto realizzare davvero. Ho creato allora le prime sculture e installazioni indagando le differenti possibilità espressive e linguistiche, di materiali diversi come cemento, tessuto, ferro, legno, gesso e carta.
Dai primi anni 2000, la mia ricerca si è concentrata sul tessuto e sull’uso del filo di ferro. La mia sfida con quest’ultimo materiale così freddo e resistente, è stata quella di lavorarlo come se fra le mani avessi un filo di seta. Era necessario quindi un tocco forte e determinato, ma nello stesso tempo rispettoso, non violento, aperto ai suggerimenti intrinseci che ne provenivano, nel realizzare sculture aeree, in trasparenza, dove il pieno contava quanto il vuoto e la stabilità quanto la precarietà.
Realizzi opere che prevedono una certosina lentezza e anche una certa ripetitività dei gesti per ottenere volumi anche importanti, che occupano lo spazio in una leggerezza data dall’alternarsi di vuoti e di pieni: che rapporto hai con il tempo e con lo spazio?
È fuori dubbio che la mia ricerca artistica sia partita direttamente dal movimento delle mani occupate a cucire, stirare, segnare, intrecciare, modellare. Quei ripetitivi gesti antichi delle donne che danno tempo al pensiero e lo lasciano decantare.
Non avendo mai avuto alcun debito o dovere verso la committenza, ho sempre potuto godere della massima libertà espressiva, nonché di spazio e tempo per tessere le mie trame, scrivere le mie parole di filo di paglia o di ferro, nel silenzio necessario a far sì che potesse emergere quel linguaggio dimenticato delle origini. Ancora oggi, mi circondo di oggetti del passato, memorie mie o del territorio, humus necessario di un lavoro che ha bisogno di tempi lunghi per fermentare e germogliare. Specialmente nelle opere più leggere e aeree ho quasi l’impressione di raccontare il silenzio concentrato nell’intimità della mia vita quotidiana. Il mio “fare” si può leggere anche come un elogio della lentezza, così necessaria a preservare la memoria, in netto contrasto con la nostra epoca dominata dal demone dalla velocità che dimentica in fretta o forse, ancor peggio, non aspira ad essere ricordata.
Cosa o chi ispira i tuoi lavori? Qual è la genesi delle tue opere, Come nascono? E come si sviluppano?
Fonti continue di ispirazione sono sia la natura che la parola, la poesia in particolare. Scritture, parole che in alcune opere emergono con la loro piena ed esplicita forza comunicativa, penso alla grande scritta “No War” impressa su un’altissima vela di garza e che diede il titolo ad una delle mie mostre più significative, mentre in altre le parole si spezzano, si aggrovigliano o appaiono in simboli o figure che le contengono. Non meno influente è quanto emerge dal mio spazio interiore fatto di immagini, di esperienze di vita, di sentimenti, di emotività, di elaborazione di testi letti e riletti nel tempo, nonché di attenzione e di silenziosa attesa. Elementi che, arrivando poi alla coscienza, continuano ad indirizzare il mio lavoro.
Come sono cambiati i tuoi lavori nel tempo –tecniche, materiali, significati? E quanto è importante per te la sperimentazione nel processo creativo?
In questi 40 anni di lavoro quasi ininterrotto, la continua sperimentazione sui vari materiali che ho utilizzato, principalmente tessuto e filo di ferro, è stata fondamentale per la mia crescita artistica, consentendomi di apportare cambiamenti a volte minimi a volte più significativi. Come un viandante seguo tracciati incerti e vaghi, in un progressivo adattamento ed interazione con i materiali poveri di cui mi servo. Nel ferro, in particolare, trovo la forza, la resistenza, la permanenza, nel tessuto la leggerezza, la flessibilità, la fragilità.
Il processo artistico è comunque sempre un’avventura. Perseguo una meta senza mai sapere qual è, se non quando l’ho raggiunta.
Nelle opere in maglie di ferro, dal punto di vista tecnico mi preme raggiungere l’effetto della trasparenza, prima ancora della leggerezza. Trasparenza per me vuol dire movimento della luce dall’interno verso l’esterno e viceversa, qualcosa di dinamico che si accompagna alla grazia e alla delicatezza. Qualcosa a metà strada fra materiale e spirituale, fra visibile e invisibile.
Quanto ai significati, le mie opere non presentano espliciti contenuti politici, né azioni provocatorie o radicali intese a modificare la società. Il mio è un impegno più indiretto, sicuramente più sottile, ma non c’è opera che non rispecchi il mio modo di guardare alle cose del mondo, ai mutamenti, più o meno allarmanti, che viviamo quotidianamente e soprattutto all’interiorità e alle inquietudini degli uomini e delle donne del nostro tempo. In questi ultimissimi anni, mi sto sempre più focalizzando sul bisogno di spiritualità che mi sembra stia lentamente emergendo nella nostra società, diventata troppo materialista e superficiale. Penso non solo alla spiritualità religiosa, ma più propriamente ad una spiritualità laica o meglio naturale, intesa come una personale ricerca introspettiva verso la consapevolezza, verso il rispetto della natura e degli uomini.
Quali sono state nel tuo percorso d’artista le maggiori difficoltà che hai incontrato (e che ancora incontri oggi)?
L’arte è comunicazione e ha necessità quindi di essere esposta e di avere un rapporto diretto con il pubblico. Questo è indispensabile sia per creare l’identità dell’artista, sia come arricchimento dell’identità collettiva. D’altro canto, l’artista ha bisogno di qualcuno che lo affianchi nel suo percorso, sia esso un critico particolarmente interessato a promuovere il suo lavoro o altra figura importante che lo supporti in questo compito. Ebbene, non avendo avuto questa fortuna, ho dovuto fare tutto da sola, come ho potuto, sicuramente in modo lacunoso e insufficiente.
Fatta questa premessa, mi duole ammettere che per tante questioni legate al mio vissuto personale, ma soprattutto per non aver voluto accettare troppi compromessi, ho finito per esporre di rado il mio lavoro. Nei primi anni mi sentivo troppo impreparata per affrontare il giudizio del pubblico, poi quando mi sono sentita pronta, mi è stato estremamente difficile trovare occasioni adeguate, sia in gallerie private che in spazi pubblici e oggi ancora più di qualche anno fa. Così, con rammarico, devo dire che moltissime opere, sia di scultura che di grafica, sono tuttora “mute” perché mai esposte, temo destinate a restare chiuse nel mio studio dove sono nate, per tutto il tempo che sarà loro concesso di vivere. Spero il più a lungo possibile.
Esprimi un desiderio.
È proprio di questi giorni la vivace discussione sulle minacce che vengono dall’intelligenza artificiale al mondo dell’arte e della creatività in generale. Personalmente non so giudicare, al momento, quali siano i reali rischi di una possibile stasi culturale dovuta a questa nuova tecnologia. Esprimo tuttavia la mia preoccupazione in proposito e il desiderio che l’uomo possa mantenere integra la propria libertà di espressione artistica, fondamentale per lo sviluppo dell’individuo e della società.