REPORT FIBER DALLA BIENNALE DI DAKAR
Per la sua quattordicesima edizione Dak’Art – Biennale de l’art africain contemporain ha portato nella capitale Senegalese una moltitudine di eventi per mostrare e promuovere l’eccitante panorama dell’arte Africana e di quella internazionale ad esso legata. Concepita nel 1989 per celebrare letteratura, arte e artigianato africano, dal 1996, la biennale si è concentrata sull’arte visiva evolvendosi fino a diventare l’evento più importante del continente.
Sotto il tema di: Ĩ Ndaffa# il direttore artistico della biennale El Hadj Malick Ndiaye ha riunito artisti, curatori e professionisti africani e internazionali nel programma ufficiale e nella ricca proposta della Biennale OFF. I paesi invitati sono la Cina e l’Etiopia.
Il tema di Ĩ Ndaffa# (in Serer) rimanda all’attività artigianale della forgiatura e racchiude l’idea di un processo creativo volto a portare nuove modalità, concetti e soluzioni possibili. Processualità, questa, intrinseca e implicita nelle attività manuali e presenza costante nella gran parte delle opere scelte dai curatori dove il tessile, la fibra, l’intreccio, il tessuto nelle sue declinazioni fisiche e concettuali è preponderante.
All’antico palazzo di giustizia, sito a Cap Manuel e sede ufficiale della biennale, si accede attraverso due grandi porte di metallo sul lato sinistro della facciata. All’interno, un ampio e luminoso patio ospita le opere. Già sulla soglia si è circondati da un’esplosione che è, in sé stessa, un intreccio di forme e colori ad addolcire la rigidità dell’architettura.
Sulla sinistra troviamo le vivaci e intricate sculture organiche di Hyacinthe Ouattara, artista nato nel 1981 in Burkina Faso e residente in Francia. La serie “Composite” è una riflessione condotta intorno al materiale tessile, elemento comune e quotidiano che racchiude le impronte del mondo e l’interiorità del singolo, che parla del tempo presente e del futuro. I volumi del tessuto attorcigliati, cuciti, ricamati, ricordano sia le forme base della natura che quelle del corpo umano e degli organi; emotivamente cariche diventano un veicolo della nostra comune umanità.

A confronto con questa astrazione biologica ecco, invece, nell’opera del Keniano Kaloki Nyamai, la figura umana nella sua rappresentazione più didascalica. Due corpi sono immersi nella quotidianità di una scena familiare resa poetica e misteriosa dal grande formato, dall’essere proposta su un patchwork di pezze cucite e dalla superficie coperta di fili a formare un sottile manto, quasi un velo protettivo.

Il corpo della donna, in forme morbide tra iconografia europea e africana, appare ancora nella serie a tecnica mista su seta cerata “MEMBRANE Brunhilda”, di Christina Katharina Lokenhoff. La tattilità visiva di queste superfici ricorda la pelle, una membrana, appunto, limite e frontiera del nostro corpo. L’artista tedesca attinge dall’Africa, dove ha vissuto per diverso tempo, la fonte della sua ispirazione imparando dalle donne locali a credere in una forza vitale spesso negata dall’educazione tradizionale europea. Le sue creature, fortemente femminili, si ergono ad effigie di una potenza trasformatrice e ci spronano a liberarci dalle nostre paure per rimetterci in connessione con le radici.


Speculare a MEMBRANE una grande cascata di gomma e poliuretano manipolati, intrecciati, ritorti, sono trasformati da Elrie Joubert, Pauline Gutter and Liberty Battson, (TRIPE Collective) nell’opera Encroaching Stray. Le artiste sudafricane hanno unito le loro pratiche per creare un’esperienza immersiva a partire da materiali del quotidiano. Come attiviste, presentano una nuova prospettiva che abbraccia il tema della biennale Ĩ Ndaffa# indagando il processo di produzione invece che il prodotto.

Ana Silva, Angola, porta a Dakar la sua memoria visiva in uno scorcio reinterpretato dei mercati di Lunda. Utilizzando materiali differenti, oggetti di scarto o di seconda mano suggerisce una narrazione di pizzi e reti in cui si rivelano figure femminili. L’artista dichiara: “Non posso separare il mio lavoro dalla mia esperienza in Angola, in un periodo in cui l’accesso ai materiali era difficile a causa della guerra d’indipendenza e della guerra civile. La mia creatività è nata dall’esplorazione dell’ambiente circostante”.
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Nel centro del corridoio l’artista Italo-Senegalese Adji Dieye (nata nel 1991) presenta un suo progetto fotografico su tessuto. Attraverso i suoi lavori, Dieye affronta la rappresentazione visiva e la mercificazione dell’identità, criticando al contempo le norme culturali e i ruoli stereotipati.

Due sale importanti dell’antico palazzo di giustizia sono dedicate totalmente agli impressionanti arazzi macroscopici di Abdoulaye Konatè, artista del Mali vincitore del Grand Prix Léopold Sédar Senghor e dell’edizione del 1996 della Biennale.
I suoi lavori affrontano tematiche di bruciante attualità, questioni socio-politiche, religiose e ambientali attraverso rimandi costanti alla tradizione del suo paese, ai gesti rituali e atavici delle tessitrici, nonché alla simbologia legata alle società segrete Maliniane. Le pareti sono coperte da superfici composte da intrecci, ricami, amuleti, feticci. Strisce di cotone sottili sono cucite per ottenere volume dalla struttura piatta tipica del tessuto giocando con le pieghe, gli avvallamenti, la sovrapposizione in innumerevoli effetti ottici. Il materiale si addensa e il piano vibra in una danza visiva che tende all’astrazione. La scelta del colore dipende sia dalla ricerca di un’armonia estetica che dal loro significato simbolico.
L’arazzo interpretato come modalità narrativa nello spazio, acquista volume e diventa oggetto tridimensionale, reso con materiali di recupero nell’installazione della giovane artista Férielle Doulain Zouari. Current Water, del 2019, presenta tubi corrugati in plastica blu, intervallati da sottili fibre dorate scendendo tra due colonne nel salone centrale della sala espositiva. Residente a Tunisi, Zouari sta sviluppando una ricerca che si interroga sui punti di contatto fra tra il mondo naturale e quello artificiale. Mantenendo un focus particolare al consumo di massa, cerca di rappresentare materialmente i temi dell’incontro, della riconciliazione e della risoluzione dei conflitti.

Il quadro che diventa scultura, percepibile a 360 gradi, è al centro delle due “doppie trilogie” di Victor Sonna. Camerunense di nascita, vive e lavora in Olanda. La sua poetica si gioca sul limite tra queste culture, in una terra di mezzo dove mettere alla prova il concetto di confine. Le sue opere double face integrano tessuti di diverso tipo, plastica, fili, chiodi; il tutto sommerso e fissato da una colata di resina. Il suo lavoro, come il punto di vista di queste opere, è plurale e destabilizzante.


Al di fuori del padiglione ufficiale le suggestioni tessili entrano in dialogo con l’ambiente, la natura e la città. Johanna Bramble, nei Giardini della Residenza di Francia, presenta una delle sue tessiture in dialogo profondo con l’ambiente naturale.


La mostra, che riunisce 10 artisti, esalta il paesaggio come luogo di tutte le metamorfosi celebrando la potente e intima relazione che gli esseri umani hanno con alberi e piante e quella che viene chiamata intelligenza vegetale. Per questo evento, sono state create opere in situ in relazione alla flora circostante, offrendo un viaggio estetico attorno al nostro rapporto con gli esseri viventi nel loro insieme. Da menzionare il monumentale drappeggio di carta di Kwami da Costa che ci ricorda il forte legame con la terra del togo, suo paese natale, attraverso un simbolismo legato ai neonati.
Quando la storia di un luogo permane nei suoi elementi visibili e nella memoria delle persone, il dialogo tra arte e territorio si carica di significato.
Le mostre sull’isola di Gorée sono intrise di un ulteriore simbolismo che fa riferimento al suo passato coloniale come centro di commercio di schiavi dal Senegal alle piantagioni dei Caraibi e degli Stati Uniti.
Ange-Arthur Koua espone per la galleria LouiSimone Guirandou. Ivoriano, residente a Abidjan, mette in discussione la sua cultura d’origine in arazzi tessili a tecnica mista che indagano l’identità generazionale, il dislocamento e la migrazione. Le sue opere, percepibili da due lati, pongono domande sulla dualità degli individui. Da un lato la cultura di origine e dall’altro le inclinazioni e l’essenza della persona. I vecchi vestiti utilizzati dall’artista, secondo la cultura Akan, mantengono la presenza delle anime che li hanno indossati diventando feticci protettivi.

Il legame con l’oggetto quotidiano e il suo utilizzo si ritrova in un’opera di piccoli pettini ricamati rappresentativa della poetica di Sonya Clark e presentata a Black Rock Maison de la Culture Douta Seck nel quartiere Medina. Clark è un immancabile esponente dell’arte tessile che si rivolge spesso ai temi della razza, perline, fili sottili e ciocche di capelli umani. “Gli oggetti hanno un significato personale e culturale perché assorbono le nostre storie e ci riflettono la nostra umanità. Le mie storie, le tue storie, le nostre storie sono racchiuse nell’oggetto”, afferma Clark.
Che sia usato per esplorare e mettersi in connessione con l’ambiente naturale, per veicolare storie e sensazioni personali, che si faccia racconto visivo di una cultura o della storia di un popolo diventando voce di denuncia e attivismo sociale, l’utilizzo del tessuto e delle metodologie legate alla sua lavorazione è evidentemente un mezzo attuale e ricercato dagli artisti contemporanei per esprimersi nel nostro tempo e questa biennale si unisce alle molteplici che ce lo stanno dimostrando.