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Shanduko

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*Foto in evidenza: Wilfred Timire, Mabhiridha, 2022, tapestry, 206 x 376 cm. Courtesy Osart Gallery and the artist, photo Max Pescio

OSART GALLERY

Linnet Rubaya, Franklyn Dzingai, Mostaff Muchawaya, Wilfred Timire
A cura di Richard Mudariki

Opening day: 16 giugno 2022 17.00 – 21.00
16 giugno 2022 – 24 settembre 2022
Osart Gallery, Corso Plebisciti 12, 20129 Milano

 

Curata da Richard Mudariki, SHANDUKO (cambiare, modificare in shona) è la collettiva dedicata a quattro artisiti visivi dello Zimbabwe: Linnet Rubaya, Franklyn Dzingai, Mostaff Muchawaya e Wilfred Timire. La mostra sottolinea come gli artisti emergenti sperimentino tecniche innovative nei loro lavori, facendo slittare e trasformando il senso dei media tradizionali, mantenendo un’attenzione particolare verso la figurazione e il tema della memoria e dell’identità culturale.

“La sottile distruzione dei mezzi tradizionali messa in atto dagli artisti dello Zimbabwe”, scrive Richard Mudariki nel testo critico della mostra, “sta ricevendo un buon riscontro internazionale, diventando un catalizzatore per le numerose pratiche artistiche che prendono vita in questa terra senza sbocchi sul mare”.  Inoltre, argomenta Mudariki, “gli artisti che si sono trovati in condizioni socioeconomiche complesse, e in territori caratterizzati da gravi carenze, sono riusciti a trasformare linguaggio e metodologia, mettendo in atto virtuose improvvisazioni sul fronte dei materiali utilizzati, e cercando valide alternative, che potessero coesistere con l’ambiente in cui si trovavano”. L’intreccio e la cucitura, oltre alla pittura e all’utilizzo di materiali di recupero, sono elementi ricorrenti nel loro lavoro; il curatore nota che curiosamente in Zimbabwe, al contrario di quanto accade nei paesi limitrofi, non esiste un unico abito tradizionale nazionale, mentre i materiali tessili di basso costo sono molto abbondanti, come in altre parti del mondo. Forse, la carenza di una “divisa” e la forte presenza di tessuti di scarto hanno spinto gli artisti a includere questi ultimi nelle loro opere, dando loro nuovi significati.

Dzingai, Timire e Muchawaya, che vivono in Zimbabwe, hanno impiegato nei loro lavori il ricamo, la stoffa, e altri materiali di scarto, recuperati da ambiti diversi. Al contrario, Rubaya, che oggi vive a Leeds, lavora con la pittura, stagliando le sue figure nere su sfondi vivaci e raccontando così la realtà multietnica delle città inglesi, celebrando le persone coinvolte, come lei, nella diaspora africana. Nel lavoro di tutti e quattro gli artisti il soggetto principale è l’uomo: le loro opere, infatti, sono spesso ritratti intimi, dedicati a familiari e amici. Nell’opera di Muchuwaya i soggetti sono trattati attraverso una pittura materica, che include materiali eterogenei. Egli guarda continuamente alla sua terra d’origine, la zona montuosa di Nyazura, nell’est del paese, dove si trovava l’azienda agricola in cui è cresciuto.

Dzingai e Timire hanno condiviso il primo premio ArtHARARE Africa, nel 2021. Il primo, a partire dalla profonda ricerca condotta sulle tecniche di stampa, crea collage in cui unisce pittura, stampe, riviste, e fotografie, spesso provenienti dal suo archivio familiare. Timire, invece, utilizza prevalentemente materiali da imballo, che cuce dando forma a veri e propri arazzi, in cui rappresenta situazioni e figure del quotidiano.

Nelle opere in mostra, i temi principali sono l’individuo e la sua vita quotidiana, affrontati attraverso una molteplicità di tecniche diverse. Tra gli innovatori della scena artistica dello Zimbabwe, Timire, Tzingai,  Muchawaya e Rubaya, hanno riflettuto in modo originale sul proprio linguaggio, senza mai tralasciare i temi della memoria e delle radici. Essi fanno parte di una scena creativa estremamente vivace, a cui tutto il mondo sta dedicando una rinnovata attenzione.

Richard Mudariki, dopo aver studiato archeologia, si è dedicato alla pittura a tempo pieno. È uno dei fondatori di ArtHARARE Contemporary art fair, una piattaforma che riunisce una selezione di opere presentate da artisti emergenti e affermati, oltre che da curatori, collettivi artistici e organizzazioni. La fiera mira ad essere una piattaforma dinamica, che metta in dialogo la comunità artistica locale e internazionale

Franklyn Dzingai, Afternoon photoshoot, 2021 cardprint and collage on Fabriano, 139,5 x 235 cm Courtesy Osart Gallery and the artist, photo Max Pescio

Testo di Richard Mudariki e Barnabas Ticha Muvhuti (2022 ca)

Shanduko (cambiare, modificare) è una mostra collettiva dedicata a quattro artisiti visivi dello Zimbabwe presso Osart Gallery, a Milano. La mostra sottolinea come gli artisti emergenti usino materiali e concetti eterogenei nel dare forma alle loro espressioni visive, facendo slittare e scuotendo le pratiche convenzionali attraverso l’introduzione di nuovi elementi e forme al’interno dei loro lavori. Il titolo della mostra indica un cambiamento che è già in atto, che può essere visto come un fattore positivo o negativo, e come tale può essere condiviso o rigettato. È interessante che la sottile distruzione dei mezzi tradizionali messa in atto dagli artisti dello Zimbabwe stia ricevendo un buon riscontro internazionale, diventando un catalizzatore verso le numerose pratiche artistiche che prendono vita in questa terra senza sbocchi sul mare. Shanduko, curata da Richard Mudariki, include le opere di Franklyn Dzingai, Wilfred Timire, Linnet Rubaya e Mostaff Muchawaya.

Dei quattro artisti in mostra, Rubaya, nata ad Harare e residente a Leeds, è una pittrice la cui pratica è dedicata alla vita quotidiana delle persone di colore incontrate nelle multiculturali città inglesi, persone che spesso hanno le radici nei territori che erano stati colonie della [non così] “Gran” Bretagna. Dzingai, nato a Kwekwe, è stato uno dei vincitori del premio ArtHARARE Africa, nel 2021. L’artista combina tecniche diverse, creando collage in cui unisce stampe da libri e riviste, oltre alle immagini desunte dall’archivio fotografico familiare. Per Muchawaya, nato a Makoni, il ricamo è una forma di pittura; egli infatti combina tessuto e pittura creando opere stratificate e vivaci. L’artista che completa il quartetto, Timire, lavora ad Harare, ed è stato premiato insieme a Dzingai in occasione di ArtHARARE Africa, nel 2021. Timire osserva e documenta ciò che lo circonda, utilizzando materiali da imballo, che cuce rendendoli veri e propri arazzi in cui rappresenta situazioni quotidiane.

Vi è una tendenza a mettere in relazione le continue sfide economiche affrontate dallo Zimbabwe e l’uso, da parte degli artisti, di materiali non convenzionali, tra cui stoffe, imballi, oggetti trovati. Tale interpretazione, ormai di pubblico dominio, rimane valida. Gli artisti che si sono trovati in condizioni socioeconomiche complesse e in territori caratterizzati da gravi carenze, sono riusciti a trasformare linguaggio e metodologia, mettendo in atto virtuose improvvisazioni sul fronte dei materiali utilizzati, cercando alternative valide che potessero coesistere con l’ambiente in cui si trovavano. Tale spostamento relativo ai materiali è accompagnato da una eloquente cornice concettuale, dal momento che gli artisti non fanno arte solamente per amore dell’arte. In ogni caso, la crisi socioeconomica della nazione non è l’unico fattore che ha spinto gli artisti a cercare delle alternative. In alcuni casi essi recuperano oggetti di scarto, che sembrano aver concluso il loro ciclo di vita, e hanno accumulato significati diversi durante il percorso. In altri casi l’uso di tali materiali risulta il miglior mezzo comunicativo per ciò che si vuole esprimere. Se alcuni sembrano ossessionati dalla possibilità di prolungare la vita degli oggetti, altri includono attraverso di essi un’eredità a cui non vogliono voltare le spalle.

Nonostante la ricerca di una divisa che fosse adottata dal governo, lo Zimbabwe non ne ha mai adottata una. Il paese non prevede nemmeno una distinzione di abiti tra i diversi gruppi etnici, come accade invece in paesi vicini. Esistono invece abiti ben definiti per quanto riguarda i gruppi religiosi – la tunica bianca per le chiese apostoliche, o l’abito tradizionale indossato dagli “zvigure”. Esistono inoltre i tessuti “retso” rossi, bianchi, gialli e neri, indossati per le cerimonie tradizionali, e gonne “mbikiza” per le danze. Essendo il retso utilizzato unicamente durante le cerimonie, esso non viene visto abitualmente per strada. Per una nazione che non ha un abito tradizionale in cui riconoscersi, è significativo che molti artisti locali abbiano incluso la stoffa nel loro lavoro, dando ad essa un nuovo valore identitario. Uno dei fattori che probabilmente ha portato gli artisti a lavorare con i tessuti, soffermandosi sul loro valore metaforico, è il fatto che essi siano abbondantemente disponibili, dal momento che il mercato locale è inondato da tessuti a basso costo importati dall’Asia.

Un elemento che caratterizza i dipinti di Rubaya e le opere multimateriche degli altri artisti è l’attenzione verso la rappresentazione della figura umana. Molti dei lavori sono riconducibili al genere del ritratto, e in alcuni casi tendono a imitare la fotografia. Spesso i soggetti raffigurati sono membri della famiglia più stretta o amici degli artisti, che si concedono tutto il tempo necessario per darne una rappresentazione nobilitata. Mentre la selezione di opere esposte raffigura le attività quotidiane delle persone di origine africana, le figure nere di Rubaya emergono, distaccandosi dal contesto. Il suo stile pittorico nasce dall’unione di elementi desunti dalla pittura di artisti come Kerry James Marshall, Barkley L. Hendricks e Amy Sherald, i cui lavori sono effettivamente una potente affermazione della “Blackness”.

Se le artiste femministe degli anni Settanta, la cui pratica includeva, tra le altre cose, la cucitura e il ricamo, avevano sondato i limiti del medium, avevano sfidato il confine tra le cosidette belle arti e il tessile, cosa possiamo dire degli artisti dello Zimbabwe oggi? Se Marcel Duchamp e gli artisti modernisti europei all’inizio del Novecento avevano ribaltato i canoni, come mai oggi si segnala una cesura, un cambiamento in atto tra gli artisti dello Zimbabwe? Per una nazione la cui arte riconosciuta a livello istituzionale consiste nella scultura in pietra, e in parte con la pittura, la trasformazione in atto fa sì che molti protagonisti della scena contemporanea lavorino con materiali di recupero ed esplorino nuove strade, come la stampa e il cucito. Dzingai, Timire e Muchawaya sono parte di questo movimento. Se questa attenzione verso la commistione di materiali e il rovesciamento delle tecniche tradizionali può apparire scontata in altre zone del mondo, in Zimbabwe assume un’importanza particolare, dando nuovo impulso alla vivace scena artistica locale, che oggi è oggetto di grande attenzione da parte di un pubblico internazionale.

Mostaff Muchawaya, Untitled, 2021 mixed media on canvas, 178 x 160 cm Courtesy Osart Gallery and the artist, photo Max Pescio

Bio

Mostaff Muchawaya è nato nel 1981 a Nyazura, Manicaland, in una zona montuosa a est dello Zimbabwe. Vive e lavora ad Harare. Si è formato presso la National Gallery of Zimbabwe School of Visual Arts and Design dal 2002 al 2003.

Muchawaya fa riferimento alla profonda connessione con le sue esperienze personali e la sua eredità culturale, inscindibili dalla “sua gente” e dal contesto. L’interesse per l’arte è nato quando l’artisa era molto giovane e fabbricava da solo i giochi in argilla o ritraeva i cani della fattoria in cui era cresciuto. Nella sua opera, fa riferimenti continui alla sua formazione rurale.

Muchawaya ha preso parte a numerose esposizioni, tra cui ‘Memory / Ndangariro’, una mostra personale presso SMAC Gallery a Cape Town (Sudafrica: 2017); ‘Landmark’ presso Gallery Delta ad Harare (Zimbabwe: 2016); ‘Mharidzo’ e ‘Zimbabwe Meets Italy’ alla National Gallery of Zimbabwe di Harare (Zimbabwe: 2015 and 2018, respectively), ‘My Entire People and Places,’ personale presso Alliance Francaise ad Harare, organizzata in collaborazione con Village Unhu (Zimbabwe: 2013). Le opere di Mostaff Muchawaya erano parte della mostra Five Bhobh – Painting at the End of an Era (2018 – 2019) presso lo ZEITZ MOCAA di Cape Town.

Linnet Rubaya, Someone to watch my back, 2022 acrylic on canvas, 90 x 75 cm Courtesy Osart Gallery and the artist

Linnet Panashe Rubaya è un’artista autodidatta, vincitrice del premio Saul Hay per artisti emergenti. Nata ad Harare, Zimbabwe, nel 1991, e cresciuta a Londra, ha studiato Scienze Biomediche all’Università di Brighton. Ora vive e lavora a Leeds, nel Regno Unito. L’identità della donna di colore, insieme alla commistione culturale presente a Londra, sono elementi centrali nella ricerca di Linnet, che punta a dare nuova visibilità a soggetti altrimenti marginalizzati. Nelle sue opere pittoriche, le campiture colorate stese con i colori acrilici incoraggiano lo spettatore a entrare in relazione con i soggetti rappresentati. Il lavoro di Rubaya mira a essere fonte di ispirazione e crescita, restituendo forza ai soggetti: “Tu sei importante, e la tua storia è importante. La tua storia ti permette di reinventare il modo in cui ti poni e in cui trasmetti ciò che desideri. Ma tu non sei solo la tua storia, sei anche l’insieme delle potenzialità raggiunte”.

Le influenze geografiche, letterarie e visive di Linnet si dispiegano lungo prospettive molteplici; si colgono i riferimenti al lavoro di Kerry James Marshall, Barkley L Hendricks e Amy Sherald, attraverso i quali l’artista è giunta a uno stile assolutamente personale. Artisti e registi come Alma Thomas, Zhao Xiaoding e Christopher Doyle hanno altresì influenzato il suo uso del colore.

Prendendo una direzione diversa da quella iniziale, Linnet è arrivata a catturare la bellezza e le vibrazioni del mondo circostante, nonostante le problematiche che lo affliggono. Nel suo lavoro risuona l’affermazione di Alma Thomas: “Attraverso il colore, ho cercato di concentrarmi sulla bellezza e sulla felicità, piuttosto che sulla disumanità dell’uomo verso i suoi simili”. Linnet è stata candidata finalista in occasione di diversi premi, tra cui “UK Young Artist of the Year” (2019) (ora conosciuto come “UK New Artist of the Year”), “Bridgman Studio Award” (2019), e “Art Harare Africa First Prize” (2020).

Franklyn Dzingai, Terry Barber - Freedom Cut, 2021 mixed media on canvas, 187 x 220 cm Courtesy Osart Gallery and the artist, photo Max Pescio

Franklyn Dzingai è nato a Kwekwe, Zimbabwe, nel 1988, e oggi lavora ad Harare. Nel 2021 è stato vincitore del premio ArtHARARE Africa. Nel 2009 ha iniziato il suo percorso di formazione presso il National Gallery of Zimbabwe Art Studio, specializzandosi nel 2011 nelle tecniche di stampa. Spesso include nel suo lavoro collage e disegni, e le sue stampe sono caratterizzate da colori vivaci. Ricava le sue immagini da libri, riviste, quotidiani e fotografie di famiglia.

Dzingai è uno dei pochi artisti in Zimbabwe ad aver approfondito il tema della stampa; ha sperimentato in particolare l’utilizzo di matrici in cartone nei processi di stampa. Questo tipo di ricerca lo ha portato a vincere diversi premi, soprattutto ad Harare.

Wifred Timire vive e lavora ad Harare. Nel 2021 è stato il vincitore del premio ArtHARARE Africa.

La ricerca artistica di Timire si basa sulla profonda analisi relativa al contesto in cui vive, che si esplica nella tendenza ad assemblare elementi trovati, tra cui materiali da imballo, e a cucirli insieme in arazzi che rappresentano le esperienze del quotidiano. L’uso di materiali di recupero, tra l’altro, fa dell’artista uno degli esponenti delle ricerche artistiche più originali dell’ulltimo periodo in Zimbabwe. Nel 2020, Tmire ha preso parte alla mostra collettiva Artist in the stream X presso la galleria Delta di Harare.

Fino ad oggi, l’artista ha esposto solamente in Zimbabwe.