Interviste

SUSIE MAC MURRAY

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Ci sono artiste e artisti il cui lavoro ci arriva più in profondità di altri. È il caso, per me, di Susie MacMurray, artista britannica multidisciplinare, già musicista classica poi artista visiva, laureata in Fine Arts alla Manchester Metropolitan University nel 2001 e con all’attivo oggi un profilo espositivo internazionale maturato tra Europa e Stati Uniti.

La pratica di MacMurray si muove su una linea sottile tra poesia ed alchimia, in un equilibrio tra materia e luogo, tra memoria e storia, tra corpo e spirito.

Susie MacMurray (Medusa 2014 in background) image credit Nazlı Erdemirel

Susie, nella tua pratica artistica utilizzi materiali inaspettati in modi inaspettati: ne risultano opere destabilizzanti per l’osservatore. Qual è il processo che ti guida nella scelta dei materiali? E la sperimentazione del materiale ha anche un significato concettuale in sé?

Il mio processo inizia in modo giocoso, spesso chiedendomi “e se?”. Cerco di creare una conversazione o una sorta di tensione tra i materiali e gli oggetti. Sì, trovo difficile distaccarmi o ignorare le varie associazioni culturali che un materiale o un oggetto possono avere. È una sorta di semiotica degli oggetti rispetto alle parole. Quindi la loro essenza, la provenienza e il modo in cui interagiscono con le altre cose, con lo spazio in cui si trovano e con lo spettatore, devono essere gestiti e bilanciati come accade per la forma fisica di un’opera d’arte. I due aspetti non sono separati. Inizio in maniera ludica ma, man mano che il lavoro si sviluppa, divento sempre più esigente sul come una cosa può diventare. Sono spesso insoddisfatta!

Museumaker Susie MacMurie Promenade at Keddleston Hall. Photo credit SUSIE MacMURRAY

Nel medium tessile, elemento che è in molti dei tuoi lavori, c’è un’intrinseca allusione alla memoria, una cifra evocativa?

Credo che, alla luce di quanto ho appena detto, sia spesso così. Per me fare arte è un modo per cercare di comprendere o potermi rassicurare rispetto al fotto che la vita sia transitoria. Spesso scelgo di usare un tessuto specifico per la sua associazione con il corpo umano, per evocarlo nel modo in cui ho appena detto. Per esempio, in Echo 2006, installato in una chiesa sconsacrata, ho usato delle retine per capelli finissime che sono diventate eteree forme craniche sospese e supporto di alcune ciocche aggrovigliate di crini usati per gli archi di violino. L’uso del filo da ricamo d’oro in Promenade 2010, a Kedleston Hall, si riferiva al prezioso “Peacock Dress” fatto di stoffa d’oro e conservato nel museo sottostante lo spazio. Parlava della memoria, della bellezza, della ricchezza, del tempo che passa e del fatto che alla fine, eventualmente, ogni cosa si chiarirà.

Promenade 2010 Sire specific installation, Kedleston Hall, Derbyshire UK Photo credit Benjamin Wiggley

L’equilibrio tra materiali di diversa consistenza e funzione, talvolta addirittura opposti (come il filo spinato militare ed il velluto di seta, ad esempio), declinati nelle tue opere è uno degli aspetti poetici dei tuoi lavori. È una metafora della vita sempre in bilico tra gioia e dolore, fragilità e forza, asprezza e leggerezza?

Sei riuscita a esprimere il concetto molto bene! Sì questa è una grande parte della mia poetica. È impressionante pensarci, può essere esilarante e orribile allo stesso tempo. Penso che forse sia per questo che sono attratta dall’esplorare queste idee in una maniera fisica e tangibile. È come sbirciare attraverso una tenda a qualcosa di troppo luminoso e accecante per poterlo guardare direttamente.

Stalker 2021 detail. Photo credit SUSIE MacMURRAY

Quali sono i temi che esplori nella tua ricerca artistica?

Veramente è quello di cui abbiamo parlato. Se da una parte c’è una modalità ludica di lavorare, dall’altra cerco sempre degli echi emozionali e culturali che incontro mentre vivo la mia vita. Alcune persone mi hanno chiesto se il mio lavoro è femminista, e devo dire, come potrebbe non esserlo?

Sono in un corpo femminile e quindi, inevitabilmente, la mia relazione culturale, sociale e fisica col mondo è femminile. Ma questo non significa che il mio lavoro sia esclusivo o escludente. La negoziazione dei paradossi fragilità/forza, vulnerabilità/potere e transitorietà/permanenza (se esiste una cosa del genere) sono universali per tutti gli esseri umani ma il modo in cui ne faccio esperienza è sempre dipendente dalla mia prospettiva.

Stalker 2021 viewed from above. Photo credit SUSIE MacMURRAY

Le tue installazioni site specific sono sempre profondamente evocative. Qual è la tua relazione con lo spazio che ospita le tue opere? Come nascono e si sviluppano questi lavori?

Spesso qualcuno mi approccia parlandomi del proprio spazio/luogo/locale, di come viene utilizzato, quali sono le aspettative, i parametri e i desideri. La collaborazione funziona meglio quando si tratta di un percorso condiviso, una delle cose che amo sono le relazioni che si sviluppano lavorando insieme. Spesso ho detto che questo potrebbe derivare dal mio periodo come musicista professionista in un’orchestra. Creare qualcosa che abbia il potenziale per essere più della somma delle sue parti collaborando con altri, realizzando qualcosa che non si potrebbe fare da soli, è simile all’esperienza coinvolgente di far parte di un’orchestra sinfonica.

Per sviluppare le mie idee, trascorro quanto più tempo possibile nello spazio, leggo quello che posso e soprattutto parlo con le persone che conoscono il luogo e le sue storie. A volte il germe di un’idea nasce da una battuta o da un aneddoto che qualcuno ha condiviso. Poi si passa al processo fisico di reperimento dei materiali pertinenti, affinando il modo in cui potrebbero manifestarsi e dialogare all’interno dello spazio, in modo che alla fine esista nello spazio solo ciò che deve esserci. Se il lavoro riesce, le idee, i materiali e lo spazio si sintonizzano in un tutt’uno.

2006 site specific installation, York St Mary’s Church hair nets & used violin bow hair. Photo credit SUSIE MacMURRAY

Qual è – se c’è – l’opera che hai realizzato che più ti ha coinvolto emotivamente e intellettualmente?

Per ragioni molto personali è l’abito-scultura Widow 2008. L’ho realizzata due anni dopo la morte di mio marito, da una pelle nera e soffice, perforata da circa 100,000 spilli da sarto larghi 50 mm. Ultimamente, un lavoro che mi ha dato molta soddisfazione è stato Stalker. Per me quest’opera è uno studio elegante e potente ma che esprime anche vulnerabilità; è realizzato con molte coppie di corna di cervo tagliate in scaglie sottili, sabbiate, perforate con un trapano e cucite su tela. La realizzazione pratica è stata molto complessa. La maggior parte del processo di realizzazione è stato eseguito durante il lockdown per il Covid 19, il che ha aggiunto all’opera un ulteriore significato per me.

Deer Antlers, work in progress. Photo credit SUSIE MacMURRAY

Mi racconti le tue ‘garnment sculptures’?

Le definisco “garnment sculpture” perché non sono capi di abbigliamento. Sono sculture che sembrano vestiti che non potrebbero essere indossati, tantomeno nascono a questo scopo. In un certo senso, possono essere considerate auto ritratti. Esplorano diversi lati dell’identità e delle esperienze femminili. Usare questa forma è una maniera pragmatica di invocare il corpo. La mia idea è che lo spettatore si possa direttamente identificare col lavoro in un modo che sarebbe impossibile fosse presentato sotto forma di pannelli o sculture tradizionali. Che forma dovrebbero assumere queste sculture che non distolga il focus da una esperienza corporea diretta?

Widow 2008 Black napa leather dressmaker pins Photo credit Ben Blackall

Cosa significa per te essere un’artista e che ruolo ha l’arte nella tua vita?

Il più delle volte creo arte perché non posso farne a meno. Mi aiuta a sopravvivere. Mi piace decidere in autonomia la giusta dose di esplorazione privata e lavoro collaborativo.

Gathering 2019 Tatton Park Mansion silk velvet, reclaimed military barbed wire photo credit Ben Blackall

Tra le tue installazioni, ce n’è una che mi emoziona profondamente: ‘Gathering’. Qual è stata la genesi di quest’opera?

Gathering è nato dalla collaborazione con dei fundraisers a favore di un magnifico ospizio in Cheshire, UK. Loro avevano identificato, come luogo adatto a una commissione temporanea, un edificio statale vicino a Tatton Park. Mio marito, io e i bambini avremmo sicuramente beneficiato ampiamente del supporto di questo spazio. Sono stata molto toccata dalla loro cura e compassione e da come il personale si riunisca per supportare le persone e i loro cari nel loro momento di maggior vulnerabilità e bisogno. La mia impressione è stata proprio quella che i malati terminali e le loro famiglie fossero accolte in un abbraccio dai dottori, dai volontari e dagli infermieri; di corpi e cuori feriti dai quali nessuno si allontanava con orrore o indifferenza ma, anzi, venivano trattati con cura, dignità e supporto. Ho lavorato coi volontari dell’ospizio per almeno 12 mesi per realizzare le singole parti dell’opera, ognuno dei quali è un fagotto di velluto di seta rosso scuro raccolto attorno a un pezzo di filo spinato militare d’epoca. Nel 2019, il lavoro venne installato in sospensione nella rotonda nella hall d’ entrata della struttura. I singoli elementi sono stati usati successivamente come regali commemorativi e per raccogliere fondi per l’ospedale.

Barbara Pavan

English version Sono nata a Monza nel 1969 ma cresciuta in provincia di Biella, terra di filati e tessuti. Mi sono occupata lungamente di arte contemporanea, dopo aver trasformato una passione in una professione. Ho curato mostre, progetti espositivi, manifestazioni culturali, cataloghi e blog tematici, collaborando con associazioni, gallerie, istituzioni pubbliche e private. Da qualche anno la mia attenzione è rivolta prevalentemente verso l’arte tessile e la fiber art, linguaggi contemporanei che assecondano un antico e mai sopito interesse per i tappeti ed i tessuti antichi. Su ARTEMORBIDA voglio raccontare la fiber art italiana, con interviste alle artiste ed agli artisti e recensioni degli eventi e delle mostre legate all’arte tessile sul territorio nazionale.