TANJA BOUKAL
*Foto in evidenza:Unfinished 2012–2013. 75 pezzi, 21 x 30 cm l’uno. Ricamo su tela
https://www.boukal.at/en/gallery-e.html/unfinished/
Tanja Boukal è nata a Vienna nel 1976 dove si è formata alla HBLA Herbststraße e laureata in Scenografia e Decorazione alla Wiener Kunstschule.
Gli esseri umani e la loro interazione con l’ambiente e con la società sono i temi centrali della sua ricerca artistica. È in particolare il modo in cui reagiscono alle situazioni ed ai cambiamenti nelle loro vite ad interessarla fino a farne oggetto di osservazione e, quasi, di ‘studio’: ad affascinarla sono le diverse soluzioni e le strategie che mettiamo in atto – più o meno consciamente – per raggiungere i nostri obiettivi, per la ricerca della felicità. Partendo dal punto fermo della dignità umana, Boukal esplora gli elementi che trasformano persone comuni in straordinarie portandole, attraverso la sua opera, al centro della scena, richiamate dalla marginalità che le sottrae alla nostra attenzione. Non il singolo individuo in quanto tale, ma piuttosto la sua peculiarità che diventa rappresentativa – una sorta di archetipo – di una moltitudine di persone che affrontano, superano e sconfiggono le identiche avversità nel loro percorso.
Nel suo lavoro utilizza tecniche artigianali tradizionali che per secoli hanno costituito la forma d’arte di generazioni di uomini e donne comuni, esprimendone la creatività e la gioia di vivere, consentendo a loro attraverso queste abilità di lasciare memoria e testimonianza di sé e all’artista di stabilire un contatto di continuità quasi personale.
Artista dalla biografia espositiva internazionale, Tanja Boukal ha recentemente esposto alla Haus der Kunst di Brno in Repubblica Ceca, al Ruth Funk Center for Textile Arts negli Stati Uniti, al Kunstverein Augsburg in Germania e alla AB Gallery di Lucerna, Svizzera. Il suo lavoro è stato incluso nel 2022 nella mostra collettiva “The Very Fiber…Not Necessarily Domestic Goddesses” alla Bernice Steinbaum Gallery di Miami. Ha all’attivo mostre e partecipazioni in spazi pubblici, museali ed istituzionali nonché in gallerie private in Europa (Austria, Italia, Germania, Svizzera, Francia, Danimarca, Grecia, Finlandia, Lussemburgo, Bosnia ed Erzegovina, Regno Unito, Russia, Spagna) Turchia e Stati Uniti.
Abbiamo approfittato della sua prossima partecipazione ad un progetto italiano per intervistarla e scoprire di più sul suo percorso. Ed ecco cosa ci ha raccontato.

Qual è l’elemento cardine intorno al quale si muove la tua ricerca artistica?
Solitamente, un tema particolare attira la mia attenzione ed è da lì che inizio la mia ricerca. Prima c’è una domanda e poi la ricerca. Quando sento che la lettura non è più sufficiente a preparare il terreno inizio a cercare persone da poter contattare facendo anche viaggi esplorativi. A volte, quando la situazione legale è complessa, coinvolgo un avvocato per consigliarmi; senza dubbio, tutto questo è parte della mia preparazione. In un certo senso, queste sono le uniche reti di salvataggio che sono in grado di attivare. Eseguo una ricerca storica, cerco informazioni sul luogo in cui dovrò andare, la sua organizzazione, le zone strategiche, cerco anche dei contatti locali. Spesso il mio primo contatto è un amico, o l’amico di un amico; è importante avere qualcuno a cui fare riferimento, nel caso le cose si mettano male.
Quando – e perché – hai capito che il tessile era il tuo medium espressivo?
All’ età di 15 anni ho iniziato la mia formazione come ricamatrice artistica. Da quando, durante la mia formazione, il ricamo fu sospeso come apprendistato, lo abbandonai e mi dedicai ad altre forme d’arte. Ho studiato scenografia e poi ho lavorato come artista, scultrice e fotografa freelance. Nel 2008, quando ho realizzato un’opera sui profughi annegati a Lampedusa, ho cercato la tecnica più dispendiosa, in termini di tempo, che conoscessi in quel momento. Volevo trascorrere il maggior tempo possibile con le vittime della politica europea sui rifugiati, di cui, come cittadina europea, mi sentivo responsabile. Volevo trasformare la mia impotenza in produttività, utilizzando il tempo dedicato al lavoro come misura di apprezzamento e rispetto per queste persone. Ho trascorso i 12 mesi seguenti ricamando su una tela a maglia fine con punti piccoli e diagonali, in una tecnica chiamata Petit Point. Quando ho esposto per la prima volta ” Hanging by a thread” (Appeso a un filo), ho potuto constatare che la reazione delle persone al mio lavoro è stata molto più forte di quella che avrei suscitato se avessi esposto “solo” delle foto. Quello è stato il punto di partenza del mio viaggio. (Foto ” Hanging by a thread”)

Nella tua pratica artistica utilizzi tecniche antiche, lente, pazienti come il ricamo o l’uncinetto seppur rivisitate in chiave contemporanea. Che significato ha questa scelta per te?
I tessuti come mezzo espressivo evocano emozioni che colpiscono molto più direttamente di altre forme d’arte. Quasi tutti hanno una relazione con essi. Che si tratti di un maglione fatto a maglia o di una coperta a punto croce realizzata da un parente; la maggior parte delle persone considera il lavoro con ago e filo come qualcosa che proviene da un ambiente familiare. Staccarsi emotivamente dal contenuto di una foto o di un dipinto è molto più facile, possiamo definirlo come “arte alta”, qualcosa che non ha nulla a che fare con la nostra vita. E poi c’è il fattore tattile: molte delle mie opere possono essere toccate fisicamente. Il mio lavoro “Rampard” consiste in pannelli di spugna alti 4,5 metri che raffigurano una recinzione del confine europeo. Sono morbidi, soffici e brutali nella loro rappresentazione. Spesso le persone si avvicinano alle mie mostre e li toccano. Nel momento in cui li toccano, ne afferrano anche il significato. (Foto “Rampart”)

Le donne sono spesso al centro della tua ricerca e delle tue opere. Quanto fanno parte di te le loro istanze?
Bene, io sono una donna. E come tutte le donne che lavorano con il tessile considerandolo un mezzo espressivo alla pari degli altri, devo difendere questa scelta nel contesto dell’arte contemporanea. Esiste una relazione di reciprocità tra donne e artigianato, in particolare la natura contraddittoria delle esperienze delle donne: come ha delineato la sottomissione femminile nel corso della storia, quando, da una rispettabile professione maschile, è stato ridefinito come un passatempo femminile; allo stesso tempo è stato, e ancora è, una fonte immensamente piacevole di creatività e di connessione tra le donne. Spesso sono proprio queste esperienze che utilizzo per trovare punti di contatto e stabilire connessioni che mi aiutano a portare a compimento i miei progetti.

Il tuo lavoro accende i riflettori su piccole storie anonime che però sono comuni a molte persone e a molte vite, dai voce e forma all’eroismo quotidiano trasformando l’esperienza personale in universale. Come nascono le tue opere? Quali sono gli ambiti di interesse della tua ricerca? Come prendono forma le idee?
Spesso inizia con informazioni che traggo dalle ultime notizie, raramente dettagliate o vagliate. Io stessa inizio a pormi delle domande. Poi inizio a cercare, spesso altrove, le risposte a queste domande. Viaggiare e vedere nuove cose è molto importante per me. Per esempio, nel 2016, per il mio “Aegean project” sono andata in Turchia perché nessuno mi sapeva spiegare cosa stesse davvero succedendo e come i rifugiati riuscissero a organizzare la loro fuga. Queste erano cose delle quali nessuno parlava, né allora e neppure oggi. Sappiamo tutti che ci sono le barche. Tutti vediamo queste persone che arrivano. Sappiamo anche da dove arrivano. Ero interessata a comprendere cosa stesse succedendo in mezzo a questi fatti di dominio pubblico. Comprendere in prima persona tutte le circostanze è fondamentale per il mio lavoro. È importante che le risposte che ho riflettano gli eventi e le opinioni di chi mi parla. Devo andare sul posto, chiedere alle persone e vedere la situazione con i miei occhi. Viaggiando da sola, comunico con molte persone; sento molte storie e queste storie costituiscono spesso la base del mio lavoro.
Alcuni dei tuoi progetti prendono forma attraverso un lavoro di indagine e documentazione che assomiglia a quello di un giornalista. Penso ad esempio al Melilla Project oppure alla riedizione dell’Arazzo di Bayeux nella versione 2.0 che svela le parole della propaganda pubblicate sui siti istituzionali. Cosa significa per te fare arte? Qual è secondo te il ruolo dell’artista oggi?
Sebbene gli artisti non salveranno il mondo, sono in grado di mettere il dito nella piaga. Proprio nel contesto di un museo, i visitatori raramente si aspettano di trovarsi a confronto con problemi politici attuali. Io cerco di offrire una visione personale dei grandi problemi, per dimostrare che dietro a grandi slogan si celano destini individuali.
In realtà, volevo diventare un giornalista ma ho trovato un modo migliore per raccontare storie.
Posso prendermi tutto il tempo che mi serve per esplorare luoghi ed eventi senza avere una scadenza. Essere artista significa avere un cappello da giullare. Riesco a captare molte cose che nessuno mi direbbe se fossi un giornalista. Inoltre, porto con me il mio punto di vista personale. Non sono oggettiva. Racconto la mia verità. Mostro come vedo le cose, dalla mia prospettiva di donna bianca ed europea.
Molto spesso, quando mi viene chiesto di partecipare a una conferenza, di parlare a un congresso sui diritti umani, di tenere un discorso in un museo, posso percepire la delusione nella sala quando annuncio che parlerò solo di ciò che ho visto. Devo subito ricordare alle persone di essere consapevoli che questa è la mia percezione delle cose e che non posso in alcun modo parlare a nome degli altri. Sto solo cercando di capire cosa pensano gli altri.
Il tuo recente progetto espositivo è “Do you know that we have lost?”. Cosa e perché abbiamo perso?
Scegliete qualcosa in cui sentite di aver perso. Che si tratti della presunta libertà di scelta, del tenore di vita, della solidarietà, del cambiamento climatico, delle guerre, dei rifugiati o di altro. Le tattiche degli ultimi anni per rendere il mondo un posto migliore, siano esse legali, politiche, di attivismo o artistiche, hanno portato a pochi progressi. Per me è inutile sbattere la testa contro il muro. O ti esploderà la testa o semplicemente ti apriranno la porta e ti lasceranno entrare. In ogni caso, nessuna casa crollerà.
Stavo discutendo con un amico di questo stato d’animo di generale depressione, della sensazione di impotenza e di cosa fare. “E se perdessimo?”, ha detto molto frustrato; mi è sembrato così deprimente. Naturalmente volevo dissentire immediatamente, perché perdere era per me un’ammissione di fallimento. Ma poi ho pensato a diverse strategie di gestione del lutto. Ammettere il fallimento non potrebbe anche aprire nuove opportunità? Rendersi conto di aver perso può essere una cosa potente, sia deprimente che liberatoria. Quando ammettiamo di aver perso una battaglia, allora potremmo essere in grado di aprire nuove strade e vincere la guerra. Credo che ne abbiamo un disperato bisogno. Di nuovi modi di vivere la nostra vita e di migliorare lo stato generale del mondo.
Seguendo questo pensiero, ho realizzato un autoritratto intitolato “Do You know that we have lost?” (Sai che abbiamo perso?) eseguito con un ricamo blackwork abbinato a l’immagine di un fiore di camomilla realizzata con la tecnica dello stumpwork sullo sfondo del titolo dell’opera. Nel linguaggio vittoriano dei fiori, la pianta significa “energia nel momento del bisogno”, spirito intraprendente e guarigione. Così l’opera, apparentemente malinconica, si trasforma in una sfida e in un incoraggiamento.

Quali sono gli artisti che più ti hanno ispirato o influenzato?
Sono ispirata da artisti molto diversi tra loro. Attraverso le narrazioni profondamente personali di Nan Goldin, nate dalle sue stesse esperienze, ho realizzato che devo vivere a fondo le cose per comprenderle. “The Disasters of War” di Francisco de Goya mi ha aperto gli occhi sul potere della dimensione giornalistica delle opere d’arte. Louise Bourgeois e la sua esplorazione del dolore e del senso di colpa mi hanno fatto riflettere sui miei rimorsi, sui miei ricordi e sulle mie posizioni.
Ma ci sono molti altri artisti meno conosciuti il cui lavoro mi ha toccato profondamente. Siano essi artisti visivi, fotografi, scrittori, cantanti o artigiani. A prescindere dalla notorietà di un artista, ciò che mi importa, in ultima analisi, è che un’opera mi evochi emozioni, siano esse positive o negative.

Alla professione artistica affianchi anche quella didattica, laboratoriale, editoriale. Quanto è importante la relazione con l’altro, comunicare e trasmettere idee, riflessioni, competenze, ecc?
La comunicazione è tutto nel mio lavoro. Senza di essa, non potrei realizzare nessuno dei miei progetti. Per stabilire una buona comunicazione, devo costruire un rapporto con le persone. Il Do ut des (che in latino significa “do perché tu possa dare”) è fondamentale. Condivido le mie esperienze, le mie paure, i miei dubbi e le mie domande e, nello scambio, mi faccio un’idea delle esperienze, delle paure, dei dubbi e delle domande della mia controparte. Imparo molto in questi incontri e mi piace condividere le mie esperienze. Che sia scrivendo un blog durante i miei progetti o sotto forma di conferenze. Quando le nostre tradizioni, le nostre conoscenze e le nostre competenze scompaiono, diventiamo una cultura senza passato. Ecco perché, per me, è importante insegnare le tecniche artigianali. La capacità di praticarle è diventata un bene riservato a una minoranza di artigiani e artisti. Veniva considerata una cosa necessaria, ma ora è stata messa da parte e relegata allo status di hobby o di passatempo di lusso. Se non diffondiamo queste conoscenze, andranno perse.

Quale delle tue opere o dei tuoi progetti ti ha maggiormente e profondamente segnato o coinvolto?
Non posso citare un solo progetto. Ho imparato moltissimo da ognuno di essi. Forse la mia più grande consapevolezza è che sono incredibilmente fortunata a vivere in un Paese sicuro e ad avere un passaporto che mi permette di farlo. Ma ho anche imparato quanto tutto sia fragile e quanto rapidamente le circostanze della vita possano cambiare. Non do nulla per scontato e resto vigile, cercando di trattare le persone come vorrei essere trattata io e cercando di non cadere nella disperazione e nel cinismo. Il lavoro coi tessuti mi aiuta in questo. Sedermi e infilare un punto dopo l’altro, concentrata su nient’altro che il movimento che verrà, mi aiuta a creare la forza per sviluppare il progetto successivo.