Interviste

Tessere lo spazio: intervista a Eleonora Gugliotta

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www.eleonoragugliotta.com

Eleonora Gugliotta è nata nel 1989 a Capo d’Orlando (ME) e dopo aver trascorso gli anni universitari a Palermo, si trasferisce a Milano dove si specializza in Arti Visive presso l’Accademia di Belle Arti di Brera. Da subito attratta dalle potenzialità espressive della fotografia, passa in seguito a sperimentare altri linguaggi come la performance, l’installazione, l’intervento urbano. Ha partecipato a numerose mostre collettive con progetti che spaziano dall’installazione alla performance in cui spesso il fruitore è invitato ad interagire con l’opera. Esordisce con una prima mostra personale nel 2015 presso l’Ex studio di Piero Manzoni a Milano; nel 2017 a Venezia collabora con il padiglione Spagna durante la Biennale di Architettura; nel 2018 è presente con un progetto al MACRO di Roma e nel 2019 è vincitrice del primo premio di Paratissima Art Fair Torino.

Frame della performance “Rito Funebre alla Terra”, 2020

Il filo è uno dei medium che utilizzi più frequentemente nel tuo lavoro. Quale è stato l’elemento determinante per questa scelta? Quali possibilità espressive – e quali limiti – ha nella tua ricerca artistica?

Siano questi filati o capelli, i filamenti sono per me strumenti ideali con cui intervenire nello spazio e non solo. Mi interessano per diverse ragioni: sostenibili, funzionali ed estetiche.

Sostenibili per via della loro facile reperibilità, per la loro forte connessione con la natura (la prima fibra concepita è quella naturale) ed è un materiale tendenzialmente poco lavorato e affatto nocivo per l’ambiente. L’aspetto funzionale è legato certamente alla loro resistenza, flessibilità ed elasticità, virtù che lo rendono un materiale anche molto versatile e al contempo durevole, infatti si adatta a diversi utilizzi oltre alla classica tessitura. Controllando la direzione del singolo filo esso diventa come il segno di una penna che disegna ciò che la mano ordina e la mente decide. Se tesi i fili diventano simili a rette divenendo talvolta punti di connessione e di giuntura tra più elementi oppure scie visibili del moto dei corpi nello spazio. Appoggiati sulle superfici nella loro casualità o immersi nei liquidi ricordano sia il caos del cosmo che la sinuosità delle forme conosciute in natura – la sua perfezione e imperfezione -. La modalità con cui il materiale viene trattato ha a che fare anche con le ragioni estetiche.

Armonia, 2016. Fili di lana su muro, 140 x 190 cm

Un limite che diverse volte mi ha spinto ad interrogarmi sulla mia reale convinzione a proseguire col suo utilizzo è l’associazione – spesso automatica – che si ha del filo con la figura femminile, mi riferisco a quella poco emancipata. Obbediente, premurosa, paziente e servile, dedita alla casa, al cucito o il ricamo, che aspetta sognante e silenziosa il proprio uomo di rientro da lavoro… Insomma una serie di configurazioni che rappresentano un ideale di donna sottomessa contro cui lotto con una certa convinzione.

Poi ho ritenuto, avendo lavorato sul tema del pregiudizio, che rinunciare a questo materiale per tali ragioni, avrebbe significato sottostare al mio di pregiudizio, e quindi semplicemente ho tralasciato quel pensiero.

Dimora, 2020 Tecnica mista; 10 x 12 x 10 cm

Pluripremiato a Paratissima 2019, il tuo progetto “Ambienti” fotografa le installazioni realizzate con il filo all’interno di spazi abbandonati. Come ti relazioni con il luogo dentro al quale costruisci una nuova architettura? È un rapporto in divenire che si sviluppa dal momento in cui cominci ad essere parte di quell’ambiente oppure è un progetto che elabori e definisci a partire da un sopralluogo e prima della effettiva realizzazione?

Il criterio con cui realizzo le installazioni della serie Ambienti è dettato da una mia personale visione d’insieme costruita mentalmente in un lungo processo di osservazione dell’inquadratura scelta, subito dopo aver individuato il sito di intervento. Tutto ciò che è legato al metodo della costruzione, nonché il lato estetico e formale del progetto, generalmente è formulato essendo letto da un determinato lato o punto preciso di osservazione, che è poi quello da cui viene fotografato. Un po’ come ci insegnano le installazioni site-specific fotografate di George Rousse – il quale ha fortemente ispirato il mio lavoro dal punto di vista formale – la prospettiva di osservazione è essenziale per leggere la composizione.

Dal punto di vista del controllo del gesto, nel momento in cui inizio a “tessere lo spazio” divengo io stessa la matita che scorre sul foglio a costruzione della scena, ed ogni singolo filo misura e diventa testimone dei miei passi che percorrono e ripercorrono lo spazio, cercando un dialogo con esso. Come un ragno seguo un flusso ipnotico, lento e accurato, a volte compulsivo, non sempre controllato, spesso per niente.

Il flusso gestuale è dunque scandito da un ritmo determinato dai sentimenti del momento e per tanto è per me mai totalmente pre-configurabile. Per venire al dunque, viene alternato controllo e casualità, alla stessa maniera di come la nostra esistenza si costituisce di un continuo alternare tra ragione e irrazionalità. Un’arte che non lascia spazio al caos/caso è un’arte per me un po’ monotona oppure è decorativismo.

Ritratto 1

Che significato ha per te ridisegnare uno spazio che è stato vissuto ed abbandonato, dialogando con il suo passato, muovendoti tra gli oggetti che ne testimoniano le memorie

Occorre precisare che le ambientazioni dei miei interventi sono scelte con grande attenzione, in quanto non sono semplici ‘luoghi del passato ormai abbandonati’ ma sono spazi che definisco: “luoghi della Modernità”, ovvero siti che, per la loro originale funzione o per la loro caratteristica architettonica, identificano il preciso momento storico e sociale di attraversamento dall’era passata a quella futura. Nello specifico, quel periodo di passaggio in cui tutto, dagli strumenti del quotidiano agli spazi vitali, ma anche e soprattutto la stessa concezione della vita, necessitavano di un radicale stravolgimento. E cosa farne di ciò che non era più considerato funzionale, esteticamente all’avanguardia, rispondente ad un’esistenza sempre più frenetica, a un consumismo incalzante, assillante e sordo? La risposta è stata semplicemente: niente. Non ci si è nemmeno posti il problema, o almeno il più delle volte. Il fatto è che io credo fermamente che dentro ogni oggetto o luogo (artificiale o naturale), ogni azione (la più istintiva o la più costruita), si celi qualcosa di molto più grande, una storia complessa o un significato semplicissimo e che esso meriti il nostro interesse. Ed è per questo che porto all’attenzione di chi guarda degli scenari ai quali non si attribuisce più alcuna importanza, spazi la cui voce non vuol sentire più nessuno. Eppure quei luoghi, quegli oggetti, esistono ancora e portano con sé tutto il bagaglio memoriale di cui sono imbevuti.

Ambienti #1 – Milano, 2015. Stampa fine art, 60 x 90 cm

Ambienti #5 – Stalla, Caprauna, 2017. Stampa fine art, 60 x 90 cm

Di fronte ad alcuni scenari sento la necessità, con una cura quasi sacrale, di portare dentro quegli spazi la mia attenzione, il mio colore, le mie carezze, il mio tempo. Il tempo che passo al loro interno è come un intimo dialogo tra due estranei senza voce né tempo che desiderano però conoscersi profondamente, che si attraggono reciprocamente e iniziano a fare l’amore.

Questo gioco o gesto di gratitudine, effimero ed inutile se vogliamo, persino difficilmente fruibile da chi non si trova lì, pone forse davanti alla domanda: cos’è l’arte se non l’aura che sta dietro un’azione? Riempio di colore e segni imprevedibili, lugubri rovine statiche senza vita che trasudano di memorie che non interessano più a nessuno. Mi piace credere che, attraverso il mio intervento, quei blocchi pesanti possano alleggerirsi del loro peso, possano quasi divenire eterei o quantomeno al centro di una scena come non lo sono più stati da tempo immemore.

Multilivello – Gratitude, 2018; Tecnica mista su plexiglass; 63 x 69 cm ca

Frame della performance “Catarsi Crisadelica”, 2016

La stratificazione della memoria e di conseguenza delle esperienze e dei sentimenti umani, è un tema molto ricorrente nei tuoi lavori; penso, ad esempio, alle opere della serie “Multilivello” ma anche alla performance “Catarsi crisadelica” o, come ricordato sopra, allo stesso progetto dedicato agli ambienti abbandonati. La tua arte è (anche) una voce che trasforma l’esperienza individuale in universale e che comprime il tempo in un eterno presente in cui passato, presente e futuro possono dialogare oppure è qualcos’altro?

Assolutamente si. Le ragioni di ogni singolo lavoro che porto avanti sono molto profonde e riguardano l’intimità dell’animo umano e il suo fare esperienza nel mondo, e spesso prendono spunto dalla mia storia personale per divenire indagini dentro le quali chiunque può riconoscersi. Durante gli studi accademici mi accorgevo di come la mia attenzione volgeva verso oggetti, strumenti e luoghi di cui soltanto successivamente avrei scoperto la ragione simbolica che mi conduceva ad essi. Ciò che mi interessava esplorare partiva dalle dinamiche comportamentali dell’individuo e per fare ciò, erano imprescindibili dei fattori senza i quali credo che nulla sarebbe mai stato possibile: l’acuta e paziente capacità di osservazione, una insistente curiosità e il profondo coraggio di sondare personalmente il terreno di quel complesso mondo che è l’esperienza.

E fu questo iter che mi portò a terminare i miei studi accademici con il progetto performativo “Catarsi Crisadelica”, un lavoro molto intimo che riguarda il processo evolutivo dell’uomo, la sua difficoltà a staccarsi dal mondo conosciuto per adattarsi ad un mondo incerto, iper-costruito, disarmante, molto distante dalla purezza e semplicità con cui questo mondo era in principio regolato, un mondo che dunque – più o meno gradualmente o gentilmente – si presenta a noi. Multilivello, una serie di collage con materiali quali stoffe, filati, carte ed altri materiali vengono assemblati e lavorati su più strati evidenziando differenti piani di lettura del lavoro, che ricordano l’esistenza di più livelli di esperienza della vita di un uomo.

Multilivello – Dono, 2019. Tecnica mista su plexiglass, 90 x 90 cm

Spesso le installazioni di fiber-art sono monocromatiche: i tuoi lavori (tutti), invece, sono sempre molto colorati. Che ruolo ha il colore nelle tue opere?

Il colore per me rappresenta molto banalmente: vitalità, forza, gioia ma anche speranza, ottimismo, alternativa, apertura. L’insieme di questi colori che si accostano l’uno con l’altro è per me uno spintone energico all’inquietudine e al lato più oscuro che spesso prevale intorno a noi e dentro di noi. Durante una mostra, tempo fa, un giovane studente mi disse guardando le immagini delle mie installazioni nei luoghi abbandonati: “quei fili tesi colorati e imprevedibili sono come bambini che giocano con i loro grigi e rigidi nonni”. Credo che quel ragazzo abbia colto perfettamente la mia intenzione in quanto quella tensione che creo attraverso quelle geometrie tessili colorate, le quali emergono con forte contrasto cromatico dal buio e dal grigio del tempo trascorso, sono come appigli a restare in vita.

particolare  Ambienti #5 – Stalla, Caprauna, 2017. Stampa fine art, 60 x 90 cm

Quando a 23 anni approdai nella grigia Milano dalla mia soleggiata e vivace Sicilia feci una serie di schizzi di colore con le ecoline, scelsi una di queste macchie informi e me la feci tatuare sul mio braccio, poi su tutto il fianco feci riprodurre in maniera indelebile anche una frase di una poesia di C. Pavese che annuncia un’ottimista promessa: «Ogni nuovo mattino uscirò per le strade cercando i colori». Quei “colori” sono perfettamente sostituibili dalla parola “pace” o “gioia”, da sempre e da tutti ricercate. Ecco, essi si dà il caso siano sempre lì con noi, soltanto che a volte ce lo dimentichiamo oppure non lo sappiamo. Quindi vedere quella macchia di colori sul mio corpo serve a ricordarmi che con me c’è tutto quello che mi serve per il mio viaggio.

Spoglie: Sicilia, 2020, capelli su carta trasparente, 150 x 96 cm

Dal filo ai capelli: come sei arrivata a sperimentare un medium così particolare? Quali caratteristiche tecniche e simboliche ti hanno convinta a questa scelta?

Oltre alle caratteristiche comuni di questi due materiali filamentosi (anche se in scale differenti), ovvero quelle estetiche, funzionali e sostenibili prima citate, credo che il motivo principale per cui ho scelto di lavorare con l’elemento del pelo fosse più il significato che questo assume nella società occidentale o, forse sarebbe meglio dire occidentalizzata… In un preciso momento del mio percorso stavo affrontando attraverso il mezzo espressivo dell’arte la tematica del pregiudizio, del pudore come frutto di una persuasiva costruzione sociale indotta o tramandata. Con le diverse serie di lavori che fanno capo a “Scorie microcosmiche”, è partito con fermezza il mio esperimento che aveva un chiaro intento provocatorio, sarcastico e sperimentale.

Sottoponendo al fruitore un oggetto – presentato come oggetto artistico – ricoperto però da texture composte da capelli, peli, polvere, briciole, pelucchi e altri microelementi di scarto della quotidianità dell’uomo, egli veniva posto immediatamente di fronte alle sue inibizioni, i suoi pudori. Era interessante, e devo dire anche divertente, notare le reazioni e i comportamenti che essi avevano subito dopo. Al termine di una serie di test avevo dedotto, con assoluta personalissima visione, che il sentimento che essi manifestavano di fronte a questi minuti e indifesi elementi corrispondeva a quella che avevano con la propria intimità. Mi divertiva credere che quando essi ridevano divertiti pensavo che vivessero la propria intimità con una certa libertà, tolleranza e leggerezza, quando invece reagivano con un esasperato disgusto o con paura, fobia, scandalo ecc…, ecco che quei sentimenti coincidevano – con molta probabilità – al loro rapporto con l’intimità.

Scorie Microcosmiche – Prototipi; a sx prototipo di Rotolo di Carta igienica, a dx prototipo di piatto

Un’altra ragione dell’utilizzo di questo materiale è la presenza/assenza della figura umana, elemento che in qualche modo torna anche in quasi tutti gli altri lavori, e che però nei progetti in cui è stata utilizzata questa determinata tipologia di “traccia umana”, questa relazione, diviene ancora più evidente; penso proprio perché il pelo/capello altro non è che un’estensione del corpo. Ancorato ad esso, porta con sé informazioni genetiche importanti che perdurano nel tempo, eppure le culture “civilizzate” lo hanno di volta in volta sempre più ridotto a inutile, antiestetico e antigienico scarto della pelle. Nel caso in cui esso si trovi sul capo dove ritorna invece ad essere essenziale, al punto da portare chi non se li ritrova a trapiantarseli. Si da vita a cure e attenzioni maniacali salvo poi tornare a reputarli disgustosi alla visione di uno solo di questi non più attaccato al cuoio capelluto. Pensandoci meglio, non risulta un po’ strano anche a voi?

particolare 2 Armonia, 2016, Fili di lana su muro

Quali sono le tue fonti di ispirazione e qual è la genesi dei tuoi lavori? Come procedi dall’idea fino alla realizzazione?

Tendenzialmente mi piace partire prima dal linguaggio espressivo che sento la necessità di sperimentare che dalla tematica. Questo perché, come ho già detto, per me la componente istintiva e quella legata all’agire sono fasi essenziali dell’ideazione, inoltre perché scopro in corso d’opera il filo conduttore. Devo dire anche che spesso rielaboro idee nate come vere e proprie “intuizioni” durante la mia infanzia.

Nel mio percorso artistico sono stati fondamentali gli studi accademici e la capacità di alcuni docenti di trasmettere il meglio di questo fantastico mondo che è l’arte, oltre al mio prendere parte alla proposta artistica della città in cui vivevo. A Palermo ad esempio studiare Graphic Design all’Accademia di Belle Arti mi ha dato delle buone basi estetico-formali, legate principalmente all’utilizzo di strumenti tecnici come l’informatica, la fotografia, la grafica, applicate all’arte contemporanea – partendo dalla realizzazione tecnica e grafica di un progetto artistico per arrivare alla sua presentazione e catalogazione. Nei primi anni palermitani il mio interesse all’arte era rivolto principalmente alla fotografia e alla street-art. Successivamente ho scoperto alcuni linguaggi delle ultime tendenze dell’arte contemporanea nei quali mi riconoscevo maggiormente e che hanno dato un’impronta fortissima al mio lavoro fino ad oggi.

Avendo poi l’opportunità di vivere in una metropoli come Milano e scoprendo meglio la fenomenologia dell’arte contemporanea, la sociologia e la filosofia dell’arte, ma anche l’antropologia culturale, inevitabilmente i miei processi mentali di elaborazione della realtà si sono via via sempre più trasformati, orientandosi verso un certo tipo di critica della società contemporanea. Hanno cominciato così a stimolarmi diversi autori e non più soltanto gli artisti visivi o alcuni specifici linguaggi artistici, mi interessavano più le loro storie, forse ancor di più la loro ideologia e il loro impegno sociale. Serge Latouche, Guy Debord, Jean Baudrillard, Georges Bataille, Pier Paolo Pasolini, Michel Foucalult, Jacques Lacan per citare alcuni nomi.

Ma le principali figure che hanno ispirato e influenzato molto il mio lavoro sono gli amici artisti, storici, sociologi e antropologi incontrati negli ultimi 5 anni, molti dei quali sono accomunati dall’appartenenza a ideologie libertarie (chi più chi meno consapevolmente).

Spoglie – Sud America, 2020, capelli su carta trasparente, 148 x92 cm

A quale progetto stai lavorando in questo momento e a quale vorresti lavorare in futuro?

Durante la prima metà di questo particolare anno, nell’isolamento costretto e nell’allontanamento prolungato dai miei principali affetti (geograficamente ben distanti da me), a Milano ho avuto fortissimi stimoli riflessivi legati ancora una volta alle relazioni umane, alla nostra fragilità e difficoltà di adattamento, temi da sempre indagati nella mia ricerca. Ho sentito stavolta, come non mai, anche il grido di una Terra ferita, esausta, furiosa e violenta. Mentre l’eco di questa violenza risuonava intorno a tutti noi l’unico mio sentimento era la compassione per la Madre Terra più che per i suoi figli. Noi esseri viventi non siamo che gli abitanti di questa gigantesca casa, che però non siamo stati in grado di accudire, rispettare e che anzi abbiamo spremuto fino all’ultima goccia. Terra della cui morte siamo gli unici responsabili.

In quel contesto sono nate delle serie di lavori in cui mettevo in relazione rappresentazioni geografiche di porzioni di territori con grovigli di capelli umani, preconfigurando così una sorta di isteresia della terra (per citare Baudrillard). Infatti, oltre ad essere considerati per alcune culture sacri ed avere fondamenta in rituali molto antichi, i capelli umani sono infatti – insieme alle unghie – l’unica parte del corpo umano che continua a crescere dopo la morte.

Differenti momenti della performance “Rito Funebre alla Terra”, 2020

Durante l’estate sono state realizzate delle performance che erano dei Rituali Funebri in onore della Terra. Ispirandomi ai riti funerari dell’Antica Grecia i miei capelli venivano strappati per essere disposti a copertura della salma – rappresentata da luoghi della nostra terra – e divenire una volta terminato il rituale: spoglie. Strati di capelli appena distinguibili che ricreavano le sagome dei vari continenti della Terra, impercettibili, fugaci, proprio come i ricordi della persona perduta.

Spoglie, Studio 5, 2020, collage, 33 x 27 cm

E dopo la morte? Mi piace credere ci sia una RINASCITA.

Sono in preparazione di nuove superfici materiche in cui saranno visibili dei continenti le cui forme sono modellate su sagome verosimili a quelle conosciute ma di fatto inesistenti, germogliate da semi/valori come il rispetto della libertà altrui, l’uguaglianza col diverso e col più debole, il rifiuto di qualsiasi tipo di imposizione e potere, la negazione dell’arricchimento materiale… da lì il loro nome di “Continenti Utopici”.

Paesaggio utopico, Studio 1 2020, collage, 35 x 35 cm

Barbara Pavan

English version Sono nata a Monza nel 1969 ma cresciuta in provincia di Biella, terra di filati e tessuti. Mi sono occupata lungamente di arte contemporanea, dopo aver trasformato una passione in una professione. Ho curato mostre, progetti espositivi, manifestazioni culturali, cataloghi e blog tematici, collaborando con associazioni, gallerie, istituzioni pubbliche e private. Da qualche anno la mia attenzione è rivolta prevalentemente verso l’arte tessile e la fiber art, linguaggi contemporanei che assecondano un antico e mai sopito interesse per i tappeti ed i tessuti antichi. Su ARTEMORBIDA voglio raccontare la fiber art italiana, con interviste alle artiste ed agli artisti e recensioni degli eventi e delle mostre legate all’arte tessile sul territorio nazionale.